È nella green economy la chiave per ricostruire un’industria italiana forte e competitiva

Per la prima volta nella storia umana si pongono oggi in contemporanea a livello globale due sfide apparentemente divergenti: i paesi avanzati debbono guardare al superamento dell’attuale fase di depressione economica, di cui sono protagonisti, tenuto conto del processo di sviluppo nelle economie di nuova industrializzazione che a sua volta concorre a una drammatica pressione antropica sull’ecosistema. Un crescente quantitativo di risorse naturali viene estratto, un’eccessiva quota di gas serra emessa in atmosfera, un’insostenibile produzione di rifiuti e inquinanti lasciata in carico all’ambiente. Al contempo, si chiede all’economia di crescere ancora.

 

In questo scenario, se le economie avanzate e in corso di industrializzazione saranno in grado di contenere l’avanzata del cambiamento climatico e il crescente esaurimento delle risorse naturali lo si dovrà anche alla loro capacità di innescare adeguati processi di innovazione dei sistemi produttivi. Non è un caso infatti che a partire dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 2005 lo sviluppo di tecnologie per la riduzione della pressione ambientale, rilevato attraverso le statistiche sui brevetti, abbia registrato un andamento esponenziale e in accelerazione rispetto alla dinamica tecnologica complessiva.

 

Le innovazioni destinate all’ambiente hanno così segnato – come più diffusamente argomentato nel Menabò di Etica e Economia – la traiettoria dello sviluppo tecnologico dell’ultimo decennio e aperto il passaggio verso la green economy, quale nuovo paradigma produttivo coerente con gli equilibri climatici e più in generale con quelli relativi al consumo delle risorse naturali; un paradigma nel quale il richiamo al rispetto degli obiettivi ambientali rappresenta solo il primum movens di un più generale processo di trasformazione dei sistemi industriali e di una divisione internazionale del lavoro centrata su nuove filiere tecnologiche, sulla quale sembra destinato a misurarsi il potenziale di sviluppo dell’economia mondiale.

 

Non è un caso se – come mostrano i più recenti dati Unep in materia – gli investimenti mondiali relativi alle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili stiano spostando il loro baricentro dalle economie occidentali ai paesi di nuova industrializzazione (con in testa la Cina, ma anche India o Brasile). Inizialmente sospinta dagli investitori esteri, la crescita di questi paesi è infatti proseguita sull’onda di una capacità di investimento sempre più autonoma, trainata da politiche di sostegno pubblico alla ricerca e innovazione che hanno favorito l’espansione di settori a più elevato contenuto tecnologico. La conquista di uno spazio di mercato significativo nei settori relativi alle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili, è stata in altri termini contestuale alla conquista di uno spazio più complessivo nelle produzioni high-tech, contribuendo ulteriormente a irrobustire il processo di innovazione in corso e a cambiare i termini del confronto competitivo con i paesi occidentali, che in precedenza si giocava su produzioni tradizionali a basso costo.

 

In questo senso può dunque risultare più corretto assumere la “green economy” come “paradigma tecno-economico” orientato dai vincoli ambientali e condizionato nel suo sviluppo dai sistemi nazionali di innovazione in cui prende forma: una prospettiva utile anche a considerare con maggiore attenzione le vere criticità che il processo di diffusione di tale paradigma sta incontrando in Europa.

 

A questo scopo può servire il confronto tra Italia e Germania, che per diversi anni hanno guidato quasi a pari merito la graduatoria dei paesi con i maggiori investimenti negli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Infatti, se da un lato la Germania ha investito in ricerca e innovazione per dar vita a filiere produttive che le consentissero di soddisfare il nuovo e crescente consumo energetico, dall’altro l’Italia si è essenzialmente limitata ad importare componenti dall’estero, producendo deficit commerciali che – nel caso, ad esempio, del fotovoltaico – hanno toccato nel 2010 punte di più di undici miliardi di dollari (Enea, Rapporto Energia e Ambiente, 2012). Tali deficit hanno subìto una forte contrazione con il venir meno delle politiche di incentivazione e con l’approfondirsi della crisi economica e il conseguente calo della domanda interna, ma la propensione dell’Italia all’importazione è rimasta immutata e nel frattempo si è pericolosamente spostata sul terreno europeo. Se infatti fino al 2012 le importazioni di pannelli fotovoltaici del nostro paese venivano fortemente alimentate dalla produzione della Cina, dopo l’introduzione dei dazi europei per combattere l’aggressiva strategia commerciale del gigante asiatico, più della metà della loro quota è coperta dalla stessa Germania.

 

In questo senso il confronto tra Italia e Germania rappresenta solo il caso più eclatante di una contrapposizione che in Europa si è prodotta tra paesi innovatori (prevalentemente nel Nord dell’area ) e paesi “inseguitori” (collocati nella fascia mediterranea), ovvero tra paesi che hanno accresciuto la specializzazione in settori ad alta intensità tecnologica e paesi che sono rimasti maggiormente ancorati a produzioni tradizionali.

 

L’opportunità per superare la crescente frattura che si è prodotta in Europa tra paesi innovatori (prevalentemente nel Nord dell’area) e paesi “inseguitori” (collocati nella fascia mediterranea), ovvero tra quelli che hanno accresciuto la specializzazione in settori ad alta intensità tecnologica e gli altri che sono rimasti maggiormente ancorati a produzioni tradizionali, ha già le basi da cui poter partire: l’ambizioso Accordo sul clima definito a Parigi nel dicembre 2015, come anche l’Agenda Onu che individua in 17 Obiettivi di sviluppo sostenibili da raggiungere entro il 2030 – entrambi sottoscritti anche dall’Italia – dovrebbero potersi tradurre in un’importante occasione di rilancio dell’economia europea; uno stimolo ad intraprendere decise e coraggiose politiche di investimento che, assunta la green economy come nuova direttrice dello sviluppo mondiale, riavviino il motore della crescita di tutta l’area iniziando dalla ricostituzione del tessuto innovativo dei paesi più arretrati. Uno stimolo che nel Vecchio Continente potrebbe trarre ulteriore slancio dalle tensioni che si profilano sul mercato mondiale dei combustibili fossili con l’avvento della Presidenza Trump e, contestualmente, dalla spinta che i nuovi giganti dell’industria come la Cina potrebbero avere nel continuare ad espandere gli investimenti in tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili.

 

di Daniela Palma

 

FONTE: http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/nella-green-economy-la-chiave-ricostruire-unindustria-italiana-forte-competitiva/

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