Così nel 2050 la geotermia potrà dare il 10% dell’elettricità italiana

La geotermia potrebbe contribuire al 10% della produzione elettrica italiana prevista al 2050. La previsione arriva dallo studio strategico “La geotermia a emissioni nulle per accelerare la decarbonizzazione e creare sviluppo in Italia”, promosso da Rete geotermica con il sostegno di  The European House–Ambrosetti, studio che ha stimato il contributo della geotermia a emissioni nulle per il processo di decarbonizzazione del Paese e le ricadute di questa tecnologia sull'economia italiana e le filiere locali. I risultati dello studio sono stati presentati e discussi in una tavola rotonda tra i vertici di aziende della filiera operatori del mondo business e istituzioni di riferimento.

 

Prospettive e potenzialità

The European House–Ambrosetti ha calcolato il potenziale di sviluppo della tecnologia: ipotizzando che l’Italia riesca a valorizzare anche solo il 2% del potenziale presente in tutto il territorio italiano nei primi 5 km di profondità (pari a 2.900 TWh), la geotermia potrebbe contribuire al 10% della produzione elettrica prevista al 2050. A livello di energia termica (attraverso le reti di riscaldamento e le pompe di calore geotermiche) complessivamente la geotermia potrebbe contribuire al 25% dei consumi finali termici, permettendo all’Italia di ridurre del 40% gli attuali consumi finali di gas naturale. Lo sviluppo della geotermia a emissioni nulle ha però anche risvolti economici e industriali. The European House–Ambrosetti ha ricostruito per la prima volta la filiera tecnologica della geotermia in Italia e negli altri Paesi europei, attraverso l’analisi di 4.787 tecnologie relative ai 24 settori manifatturieri per i Paesi dell’Unione Europea, dal 1995 ad oggi, per un totale di circa 90 milioni di dati e informazioni. È emerso come l’Italia vanti una posizione di leadership in termini di filiera tecnologica per la geotermia; è infatti il secondo Paese in ue – dopo la Germania – per valore della produzione industriale potenzialmente attivabile dalla filiera geotermica pari a 37,7 miliardi di euro (il 23,7% del totale europeo e un valore più alto della somma del valore di produzione di Francia, Spagna e Polonia pari a 36,9 miliardi di Euro). Oltre al know-how manifatturiero, l’Italia è tra i Paesi leader in Europa anche nella fornitura di servizi ad alta specializzazione, sia nell'ambito esplorativo (caratterizzazione geologica, geochimica e geofisica), che negli studi di fattibilità e nella successiva ingegnerizzazione, coprendo, quindi, tutta la catena del valore di sviluppo di un progetto geotermico.

 

Ricadute economiche

Inoltre, investire nella tecnologia geotermica genera elevate esternalità economiche positive a livello locale. Infatti, The European House-Ambrosetti ha calcolato per la prima volta il moltiplicatore economico e occupazionale associato agli investimenti nella tecnologia geotermica: 1 euro investito in questa tecnologia attiva altri 2 euro nel resto dell’economia, per un moltiplicatore economico che è il più alto tra le fonti rinnovabili. Ogni GW installato genera un valore aggiunto complessivo a livello di sistema-Paese pari a 8 miliardi di Euro. Anche dal punto di vista sociale e occupazionale, il settore della geotermia gioca un ruolo chiave, generando circa 6.131 nuovi occupati (diretti, indiretti e indotti) per ogni GW installato, e risultando la tecnologia green a maggiore intensità occupazionale. Infine, occorre evidenziare l’elevato capacity factor della geotermia che garantisce una produzione elettrica superiore a parità di MW installato rispetto alle altre fonti di generazione elettrica. The European House–Ambrosetti ha calcolato il potenziale di sviluppo della tecnologia: ipotizzando che l’Italia riesca a valorizzare anche solo il 2% del potenziale presente in tutto il territorio italiano nei primi 5 km di profondità (pari a 2.900 TWh), la geotermia potrebbe contribuire al 10% della produzione elettrica prevista al 2050. A livello di energia termica (attraverso le reti di riscaldamento e le pompe di calore geotermiche) complessivamente la geotermia potrebbe contribuire al 25% dei consumi finali termici di oggi, permettendo all’Italia di ridurre del 40% gli attuali consumi finali di gas naturale.

 

Scarsa stima

La fonte d’energia derivante dal calore generato della terra tuttavia non sembra però godere nel nostro Paese di grande stima nonostante la tradizione ultracentenaria (e le prospettive per l’estrazione del litio). Negli ultimi anni non sono stati realizzati nuovi impianti geotermoelettrici facendo perdere la posizione di leadership acquisita a livello mondiale: nel 2000 l’Italia era il 4o Paese al mondo per potenza elettrica installata della tecnologia tradizionale, mentre è oggi l’8o Paese al mondo. In Italia, i piani energetici nazionali non puntano su questa tecnologia. Nella bozza del Pniec non viene citato un obiettivo per la geotermia a emissioni nulle, mentre la bozza del decreto FER2 prevede uno sviluppo minimo (solo 60 MW per impianti ad emissioni nulle). Anche guardando al 2050, la strategia italiana di lungo periodo non riporta obiettivi puntuali per la geotermia a emissioni nulle. Di contro, l’Ue sta considerando la geotermia come una tecnologia strategica per la decarbonizzazione e mira a triplicare la produzione entro il 2050.

 

Un driver chiave

Alla luce di queste evidenze, la geotermia a emissioni nulle può rappresentare un driver chiave per la transizione energetica italiana. Tuttavia, permangono alcuni vincoli che limitano il pieno potenziale della tecnologia, tra cui il costo di generazione elettrica, l’elevato rischio di esplorazione iniziale e iter autorizzativi ancora troppo complessi. Per poter cogliere e valorizzare i benefici della tecnologia a emissioni nulle. The European House–Ambrosetti ha identificato alcuni ambiti di policy concrete: risulta opportuno definire dei meccanismi di incentivazione adeguati che ne favoriscano lo sviluppo (ad esempio, attraverso specifiche tariffe incentivanti pari a 300 €/MWh per i primi 10 anni, riducibili a 200 €/MWh nei successivi 15 anni), misure di de-risking per tutelare l’attività imprenditoriale dal rischio intrinseco della tecnologia (ad esempio, tramite la compensazione per gli sviluppatori dei progetti geotermici condizionata al successo o al fallimento della perforazione del primo pozzo esplorativo) e snellire e ottimizzare gli iter autorizzativi (ad esempio, attraverso la creazione di un’autorità geotermica nazionale e l’istituzione del titolo autorizzativo unico).

 

I commenti

“La geotermia a emissioni nulla potrebbe avere un beneficio geostrategico e limitare la dipendenza dai Paesi esteri. Infatti, l’estrazione di litio dai fluidi geotermici rappresenta un’opportunità strategica per ridurre il rischio geopolitico e sostenere la filiera europea, in un contesto in cui la domanda di litio a livello globale è stimata aumentare di almeno 15 volte entro il 2040 rispetto ai livelli del 2020, spinta dalla domanda di veicoli elettrici e batterie di accumulo. Allo stesso tempo, la geotermia è la tecnologia green meno dipendente dalle materie prime critiche, riducendo quindi la dipendenza da Paesi esteri. Infine, le risorse geotermiche non necessitano di approvvigionamento estero, contribuendo ulteriormente a ridurre la dipendenza da Paesi terzi.”, ha commentato Lorenzo Tavazzi, senior partner e responsabile area scenari e intelligence di The European House-Ambrosetti.

“Rete geotermica ha consolidato una filiera di aziende che rappresentano l'eccellenza italiana nel settore a livello mondiale per lo sviluppo di progetti geotermici ad emissioni nulle. In Italia, Rete geotermica ha in sviluppo 44 progetti per oltre 800 MWe di potenza elettrica installabile ed investimenti di circa 8 miliardi di euro da realizzare entro il 2040. Purtroppo, ad oggi, nessun impianto è stato realizzato a causa dei complessi iter autorizzativi e della mancanza di adeguate politiche di sostegno allo sviluppo di questa tipologia di progetti. Auspico che questa iniziativa possa aumentare la consapevolezza dei decisori politici   sul ruolo strategico che ha la geotermia ad emissioni nulle e di guidarne lo sviluppo per contribuire alla transizione energetica del nostro Paese”,  ha commentato Fausto Batini, presidente di Rete geotermica.

 

Fonte https://www.e-gazette.it/sezione/rinnovabili/studio-cosi-2050-geotermia-potra-dare-10-elettricita-italiana

Direttiva Case Green: per Kyoto Club e Legambiente è un passo importante del Green Deal europeo

Con un position paper redatto congiuntamente, Kyoto Club e Legambiente delineano il contesto complessivo del patrimonio edilizio del nostro Paese e sviluppano una riflessione sulla necessità di recepire a livello nazionale la Direttiva “Case Green” approvata definitivamente dall’Unione europea. Si tratta di “un tassello fondamentale del Green Deal europeo” – scrivono le due associazioni ambientaliste. “La normativa mira a promuovere gli interventi di efficienza energetica nel settore edilizio, che nel nostro Paese costituisce ancora il 20% delle emissioni nazionali legate all’energia. Un passaggio obbligatorio se vogliamo raggiungere i target europei di riduzione delle emissioni al 2030 e al 2050 e contrastare la povertà energetica che tutt’oggi affligge milioni di famiglie”.

 

Ricordando che entro il 2030 è previsto lo stop alle installazioni di caldaie a gas, Kyoto Club e Legambiente ribadiscono anche che “secondo i dati della Commissione, gli edifici del Vecchio continente sono responsabili del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni dirette e indirette di gas a effetto serra legate all’energia rispetto al consumo e alle emissioni totali. Questi numeri sostengono sostanzialmente la scelta, proposta a livello comunitario, di incoraggiare il percorso con la strategia ‘ondata di ristrutturazioni’, pubblicata nell’ottobre 2020, che prevede misure concrete di regolamentazione, finanziamento e sostegno volte come minimo a raddoppiare il tasso annuo di ristrutturazione energetica entro il 2030 e a incoraggiare la deep renovation”.

 

Nel documento si specifica che “almeno il 55% della riduzione del consumo di energia primaria” debba essere raggiunto tramite la ristrutturazione degli “edifici residenziali con le peggiori prestazioni” ossia quelli che “rientrano nel 43% dei casi con le prestazioni energetiche più basse del patrimonio edilizio nazionale”, ovvero oltre cinque milioni di costruzioni.

L’Italia, scrivono Kyoto Club e Legambiente, “può trarre beneficio da una strategia di deep renovation del proprio costruito sia da un punto di vista della riduzione delle emissioni che dall’abbattimento dei costi energetici delle bollette e dal crollo della povertà energetica. Ed è proprio in quest’ottica che la revisione della EPBD può supportare il Paese nella definizione degli obiettivi intermedi e delle azioni strategiche da intraprendere”.

 

Tra le proposte avanzate nel documento c’è l’introduzione di una struttura di incentivi differenziata in base al reddito, la possibilità della cessione del credito e dello sconto in fattura per i redditi medio-bassi, l’istituzione di un fondo per le famiglie in povertà energetica, lo stop alle installazioni di caldaie fossili al 2030 e l’adozione di politiche Whole Life Carbon che tengano conto della riduzione delle emissioni operative ed incorporate.

“È fondamentale – dichiara Giacomo Pellini, responsabile comunicazione di Kyoto Club – che il Governo ed il Parlamento italiani recepiscano quanto prima la revisione della Direttiva Epbd nell’ordinamento legislativo per avviare la riqualificazione del nostro patrimonio edilizio, vetusto ed inefficiente, e sostenere le oltre due milioni di famiglie che vivono ancora in uno status di povertà energetica”.

 

Fonte https://www.themapreport.com/2024/04/17/direttiva-case-green-per-kyoto-club-e-legambiente-e-un-passo-importante-del-green-deal-europeo/

L’Italia del benessere equo e sostenibile

Come cambia il benessere nel Belpaese? Per rispondere, si possono utilizzare i dati forniti qualche giorno fa dall’Istat e contenuti nelRapporto Bes 2023 sul benessere equo e sostenibile in Italia e nelle sue regioni.

 

Il Rapporto, quest’anno alla sua undicesima edizione, presenta una fotografia molto dettagliata di come si vive nei diversi territori italiani in un’ottica multidimensionale, secondo la quale il benessere delle persone non è solo economico ma anche sociale e ambientale. Il Bes si basa, infatti, su 152 indicatori elementari raggruppati in 12 domini: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione, ricerca e creatività, qualità dei servizi.

 

Gli indicatori del Bes costituiscono una notevole fonte di informazione anche in chiave longitudinale, consentendo di studiare le dinamiche del benessere nel tempo, con stime annuali dal 2004 al 2023, l’ultimo anno disponibile per gran parte degli indicatori.

 

Il Bes non misura solamente il livello di benessere del nostro paese, ma anche come si distribuisce all’interno del territorio italiano e tra diversi gruppi socio-demografici. Come dice il nome stesso del Rapporto, si dà molta attenzione a monitorare sia le disparità, che sono soprattutto territoriali e di genere, che la sostenibilità del benessere in un’ottica generazionale.

 

Per comprendere meglio il fenomeno, gli indicatori Bes sono sia oggettivi sia soggettivi, consentendo di osservare anche la percezione che i cittadini hanno nei vari ambiti della loro vita (come, ad esempio, la soddisfazione per le relazioni sociali o per il lavoro ma anche la sicurezza percepita nel proprio quartiere).

 

Il quadro di sintesi che ci offrono i nuovi dati mostra come il benessere in Italia sia migliorato rispetto all’anno precedente per più della metà degli indicatori, ma sia peggiorato in quasi il 30 per cento del cruscotto Bes. I domini che peggiorano di più sono sicurezza e ambiente (in termini sia di indicatori oggettivi che soggettivi), mentre quelli che migliorano di più sono benessere economico, benessere soggettivo, istruzione e formazione.

 

L’Italia nel quadro internazionale

 

Nonostante l’Istat abbia registrato nell’ultimo anno un significativo miglioramento in molti domini del benessere, l’Italia continua a collocarsi in una posizione di svantaggio rispetto alla media dei paesi europei (Ue-27) per la maggior parte degli indicatori confrontabili (figura 1).

 

In cima alla classifica degli aspetti del benessere che vedono l’Italia sotto la media europea, e con forti disparità di genere, si trovano la percentuale di lavoratori in part-time involontario (10,2 per cento in Italia, di cui 15,6 per cento per le donne e 5,1 per cento per gli uomini, contro il 3,6 per cento della media Ue-27) e il tasso di mancata partecipazione al lavoro (14,8 per cento in Italia, di cui 12,3 per cento per gli uomini e 18 per cento per le donne, contro una media europea dell’8,7 per cento). Anche le giovani generazioni italiane rimangono distanti dai coetanei europei, sia in termini di percentuale di Neet (Not in employment, education or training; 16,1per cento in Italia e 11,2 per cento in media nei paesi Ue-27) che di laureati tra i 25 e i 34 anni (in Italia è di 12,5 punti percentuali inferiore).

 

Viceversa, le condizioni di benessere in cui il nostro paese si posiziona sopra la media Ue-27 riguardano la salute (in termini di mortalità evitabile e infantile) e la sicurezza (per il tasso di omicidi).

 

Un paese, tanti livelli di benessere

 

Anche la disparità territoriale non accenna ad attenuarsi negli anni: nelle regioni del Nord e del Centro Italia il livello di benessere è prevalentemente alto o medio-alto (spiccano in particolare la Valle d’Aosta e le province di Bolzano e di Trento), mentre le regioni del Sud (e in particolare Campania e Calabria) mostrano livelli di benessere tendenzialmente bassi o medio-bassi. I domini dove la disuguaglianza tra le regioni è più marcata sono il benessere economico, l’ambiente e il paesaggio e il patrimonio culturale.

 

Grazie al recente progetto Best (Bes dei territori) avviato dall’Istat nel 2023, è possibile disaggregare ulteriormente l’analisi territoriale, consentendo confronti tra le province e rivelando come aree di una stessa regione possano avere marcate differenze di benessere.

 

L’edizione 2023 del Rapporto Bes contiene anche un interessante approfondimento tematico sulle disuguaglianze di benessere tra persone con diverso titolo di studio. Il Rapporto mostra come l’istruzione rappresenti una delle più̀ importanti determinanti del benessere multidimensionale. Dalla figura 2 si nota che un elevato titolo di studio influenza positivamente non soltanto gli indicatori di benessere economico e di partecipazione al mercato del lavoro, ma anche quelli legati alle relazioni sociali (volontariato e partecipazione culturale e sociale), alla salute (adeguata alimentazione, eccesso di peso, sedentarietà, mortalità evitabile) e al benessere soggettivo (fiducia generalizzata, giudizio positivo sul futuro, soddisfazione per il lavoro e per le relazioni amicali). Dunque, l’istruzione ha un ruolo centrale nel favorire lo sviluppo di molte dimensioni del benessere.

 

Con la straordinaria ricchezza di informazione messa a disposizione di tutti, il Rapporto Bes si rivela anche quest’anno un importante strumento a supporto non solo del decisore politico nazionale, ma anche delle amministrazioni locali, con l’obiettivo di tenere monitorati i divari di genere, generazionali e territoriali, che sono ancora troppo marcati nel nostro paese.

 

di Chiara Gigliarano

 

Fonte https://lavoce.info/archives/104462/litalia-del-benessere-equo-e-sostenibile/

Energia e clima, all’interno del Def il Governo Meloni boccia il proprio Pniec

Dopo le bocciature incassate da associazioni ambientaliste, d’impresa, Ocse e Commissione europea, il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) elaborato dal Governo Meloni viene adesso sconfessato dallo stesso esecutivo.

 

Tra gli allegati del Documento di economia e finanza (Def) 2024, appena pubblicati dal ministero dell’Economia, spicca la Relazione del ministro Pichetto sullo stato d’attuazione degli impegni per la riduzione dei gas serra.

 

Anche considerando l’adozione delle politiche individuate nella bozza del Pniec avanzata dal Governo Meloni nel 2023 – e che dovrà essere ri-presentata a Bruxelles in versione aggiornata entro il 30 giugno –, continua a emergere «una certa distanza dagli obiettivi di riduzione, che indica la particolare difficoltà ad incidere efficientemente su alcuni settori, in particolare trasporti e civile».

 

Per questi due settori infatti «non risultano riduzioni significative delle emissioni a partire dal 2013 e, sebbene le nuove politiche ipotizzate nella bozza di aggiornamento del Pniec vadano a incidere anche su di essi, l’efficacia delle stesse non appare ancora sufficiente al raggiungimento degli obiettivi».

 

Il Governo stesso, dunque, è arrivato a sconfessare la bontà delle proprie proposte politiche, messe in campo per la decarbonizzazione del Paese. Se l’Italia seguisse la traiettoria definita dall’attuale bozza del Pniec, le emissioni di gas serra passerebbero dalle 410 MtCO2eq registrate nel 2022 a 374 nel 2025, a 312 nel 2030 e a 241 nel 2050, quando dovrebbero invece arrivare allo zero netto.

 

«Appare quindi necessario – si legge nel Def – adottare ulteriori politiche e misure aggiuntive, in particolare nei settori civile e dei trasporti, per raggiungere gli obiettivi europei che si applicano all’Italia».

 

Il Documento di economia e finanza si spinge anche a ipotizzare quali siano le principali linee d’azione in cui si dovranno concentrare gli sforzi del Paese, e dunque (presumibilmente) del nuovo Pniec in fase di elaborazione.

 

Ampio spazio viene dedicato a opzioni controverse come le tecnologie di cattura e stoccaggio geologico del carbonio (Ccs), che avrebbero «un ruolo fondamentale nel processo di decarbonizzazione», nonostante ampia parte della comunità scientifica suggerisca il contrario. Si tratta però di un’opzione sulla quale punta forte Eni, che nel mentre ha annunciato di voler aumentare la produzione di petrolio e gas almeno fino al 2027. Non a caso nel Def viene citata l’autorizzazione già concessa al Cane a sei zampe per il progetto pilota “Ccs Ravenna Fase 1”.

 

Guardando agli altri pilastri d’intervento proposti nel Def, il nuovo Pniec «deve essere visto come una base condivisa per l’identificazione di misure addizionali in particolare nel settore dei trasporti, del civile e dell’agricoltura». Ovvero tutti settori sui quali nei fatti il Governo ha finora cercato di frenare la transizione ecologica, che si parli di efficientamento delle case, dello stop alle auto alimentate coi combustibili fossili o della tutela della natura.

 

Nel Def si riconosce invece che «si dovranno potenziare le politiche e le misure per promuovere l’efficienza energetica nel settore residenziale identificando nuovi strumenti per il coinvolgimento dei privati e del settore pubblico nella riqualificazione del parco edilizio». In particolare, in risposta alla direttiva Case verdi appena approvata in Ue «si prevede l’attuazione di una riforma generale delle detrazioni» per la riqualificazione energetica degli edifici.

 

«Anche un maggiore coinvolgimento dei settori non energetici sarà necessario per il raggiungimento degli obiettivi», mentre finora le proteste degli agricoltori sono state cavalcate per cercare di bloccare la transizione ecologica del comparto, che porterebbe benefici in primis ai piccoli proprietari agricoli.

 

Nell’ambito del settore dei trasporti, infine, per il Def «occorrerà incentivare con maggiore forza misure tese a trasferire gli spostamenti dell’utenza dal trasporto privato a quello pubblico», oltre a favorire lo smart working e a promuovere la mobilità dolce.

 

di Luca Aterini

 

https://greenreport.it/news/economia-ecologica/energia-e-clima-allinterno-del-def-il-governo-meloni-boccia-il-proprio-pniec/

 

 

Il devastante costo dei cambiamenti climatici, “38mila miliardi di dollari entro il 2050 a livello globale”

Con le temperature medie globali in aumento, i costi dei cambiamenti climatici potrebbero provocare un calo del reddito della popolazione mondiale, che potrebbe raggiungere una diminuzione del 19 per cento entro i prossimi 25 anni. A elaborare queste preoccupanti stime uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati del Potsdam Institute for Climate Impact Research. Il gruppo di ricerca, guidato da Leonie Wenz, ha realizzato dei modelli di previsione per anticipare le conseguenze economiche del cambiamento climatico, valutando diversi scenari di emissioni di carbonio. Lo sviluppo di strategie di mitigazione e adattamento da parte degli enti pubblici e privati non può prescindere dall’utilizzo di proiezioni accurate. Le conoscenze attuali, precisano gli autori, sono però fortemente limitate dalla natura scoraggiante e variabile dei risultati climatici a lungo termine.

 

Per superare le difficoltà esistenti, il team ha considerato le informazioni sulla produttività economica e vari scenari climatici. Gli scienziati hanno integrato poi i dati relativi alle temperature e alle precipitazioni raccolti in oltre 1600 regioni in tutto il mondo, esaminando anche le proiezioni climatiche fino al 2049. Infine, gli esperti hanno tenuto in considerazione gli schemi sulla variazione della disponibilità economica media delle varie aree geografiche negli ultimi 40 anni.

 

Questo approccio ha permesso agli studiosi di ottenere una serie di previsioni su come l’economia mondiale reagirà all’aumento dei costi legati al cambiamento climatico e all’aumento delle temperature. In particolare, gli autori hanno ipotizzato un calo del reddito medio di popolazione del 19 per cento. Questa diminuzione, secondo il gruppo di ricercatori, sarebbe attribuibile direttamente alle variazioni delle temperature e dipenderebbe dalle emissioni di gas a effetto serra perpetrate finora. Tali stime, commentano gli studiosi, supererebbero già di sei volte i costi associati alla limitazione del riscaldamento a due gradi oltre i livelli preindustriali, in conformità con l’Accordo sul clima di Parigi. Il lavoro si aggiunge pertanto al corpus di prove che dimostrano i benefici monetari che deriverebbero della mitigazione delle emissioni nella seconda metà del secolo.

 

Stando a quanto emerge dall’indagine, inoltre, le conseguenze del cambiamento climatico si manifesteranno in modo disomogeneo nei vari paesi del mondo, con le aree a basso reddito che sperimenteranno gli effetti più gravosi. Secondo le proiezioni, infatti, le zone associate a emissioni storiche più basse potrebbero subire un calo dei redditi medi del 61 per cento più elevato rispetto ai paesi con redditi più ingenti. Le stesse aree sperimenterebbero una riduzione della disponibilità economica del 40 per cento più importante rispetto ai paesi associati a emissioni storiche più alte.

 

Nel complesso, l’analisi suggerisce che i danni annuali globali ammonteranno a 38mila miliardi di dollari nel 2050. La riduzione del reddito medio in Italia sarà del 15 per cento, in Grecia del 17 per cento, mentre Spagna e Francia saranno associate a un calo rispettivamente del 18 e del 13 per cento. “Si prevedono forti riduzioni del reddito per la maggior parte delle regioni, tra cui il Nord America e l’Europa – afferma Maximilian Kotz, scienziato del Potsdam institute e autore dell’articolo – l’Asia meridionale e l’Africa saranno le più colpite. Le riduzioni sono causate dall’impatto del cambiamento climatico su vari aspetti rilevanti per la crescita economica, come le rese agricole, la produttività del lavoro o le infrastrutture”.

 

Questi risultati, commentano gli esperti, evidenziano una conseguenza poco studiata dei cambiamenti climatici, che potrebbe esacerbare gli effetti dell’ingiustizia climatica. L’economia globale, sottolineano gli scienziati, potrebbe risentire notevolmente dell’incremento di temperature di origine antropica, con i paesi associati a disponibilità economica limitata notevolmente più vulnerabili al calo di reddito. Queste proiezioni sottolineano la necessità di intervenire prontamente a supporto delle economie più in difficoltà, attuando al più presto programmi e strategie di riduzione delle emissioni.

 

“La nostra analisi – conclude Wenz – mostra che il cambiamento climatico causerà ingenti perdite economiche entro i prossimi 25 anni in quasi tutti i Paesi del mondo, anche in quelli altamente sviluppati come Germania, Francia e Stati Uniti. Questi danni a breve termine costituiscono il risultato delle nostre emissioni passate. Avremo bisogno di maggiori sforzi di adattamento se vogliamo evitare almeno alcune di queste conseguenze. E dobbiamo ridurre drasticamente e immediatamente le nostre emissioni. In caso contrario, le perdite economiche diventeranno ancora più ingenti nella seconda metà del secolo, fino a raggiungere il 60% in media globale entro il 2100. Questo dimostra chiaramente che proteggere il nostro clima rappresenta un investimento, piuttosto che una spesa”.

 

Fonte https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/18/il-devastante-costo-dei-cambiamenti-climatici-38mila-miliardi-di-dollari-entro-il-2050-a-livello-globale/7517190/

 

 

Rifiuti organici, è allarme: differenziata ferma, scarti in aumento e troppi impianti

Crescita zero delle raccolte differenziate, che peggiorano per qualità. e impianti di trattamento che invece proliferano. Una combinazione pericolosa per il settore del biowaste italiano, comparto di punta della bioeconomia circolare nazionale minacciato da “una serie di criticità che devono essere affrontate con urgenza”, chiarisce Lella Miccolis, presidente del Consorzio Italiano Compostatori, che ha messo in fila i numeri di settore in un’analisi dai toni in chiaroscuro. Nel 2022, rileva il centro studi del CIC sulla base dei dati ISPRA, sono state raccolte 7,25 milioni di tonnellate di rifiuto organico, tra umido e verde, che arrivano a 8,35 milioni considerando anche fanghi da depurazione e scarti dell’agroindustria. Dal loro trattamento nei 357 impianti autorizzati sono stati prodotti circa 1,9 milioni di tonnellate di compost e 409 milioni di metri cubi di biogas, valorizzati mediante la produzione di circa 411 GWh di energia elettrica, 169 GWh di energia termica e 167 milioni di metri cubi di biometano. “Quello del biowaste si conferma un settore fondamentale per l’economia del Paese e nella lotta alla crisi climatica”, spiega Miccolis.

 

Fin qui le luci. La prima ombra, spiega però il CIC, è quella proiettata dai numeri della raccolta differenziata, che tra 2021 e 2022 ha perso 4mila 400 tonnellate di umido in valore assoluto. Un calo “dovuto in parte agli strascichi delle anomalie generate dalla pandemia da Covid-19 e in parte al calo della popolazione residente in Italia”, chiarisce Miccolis. Ma il vero campanello d’allarme è quello del tasso di intercettazione per abitante, aumentato solo di 0,1 kg. Al di là delle statistiche, significa che la differenziata è sostanzialmente ferma, mentre restano oltre 5 i milioni di cittadini residenti in comuni che presentano ancora ampi margini di miglioramento e addirittura 675 comuni in cui non risulta essere stata attivata la raccolta differenziata, sebbene questa sia diventata obbligatoria dal 1 gennaio del 2022. Considerando l’andamento complessivo della popolazione residente, secondo le stime del Centro Studi CIC, in uno scenario verosimile, la potenzialità massima di raccolta di rifiuto organico (umido e verde) raggiungibile dall’Italia nel medio periodo è di 8,2 milioni di tonnellate l’anno, con una crescita di 800mila tonnellate, di cui circa 6,5 milioni di tonnellate l’anno solo di frazione umida. Numeri che, sottolinea il CIC, impongono una seria riflessione sulla capacità impiantistica, che sta aumentando a un ritmo di gran lunga superiore a quello della raccolta.

 

Secondo lo studio, infatti, gli impianti attualmente autorizzati nel 2022 hanno messo insieme una capacità di circa 12 milioni di tonnellate l’anno di rifiuti a matrice organica, oltre 750mila in più del 2021. A oggi l’autosufficienza impiantistica è garantita a livello nazionale e macro regionale, chiarisce il CIC, ma nuovi impianti sono già in cantiere, spinti dagli incentivi al biometano e dai fondi PNRR destinati ai comuni. Il rischio è quello di creare una sovra capacità di trattamento in alcune aree del paese, soprattutto a Nord, con ripercussioni sulla sostenibilità economica degli impianti, e in particolar modo di quelli non incentivati, tipicamente i siti di solo compostaggio. Ecco perché, chiarisce Miccolis, occorre “direzionare correttamente gli investimenti nel settore per arginare gli effetti di una sovra capacità impiantistica“. Un messaggio rivolto soprattutto al Ministero dell’Ambiente, che con il Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti ha definito i criteri in base ai quali le Regioni dovranno colmare i propri fabbisogni di trattamento. Fabbisogni che il CIC chiede di valutare e misurare con grande attenzione.

 

Quello per il rischio di overcapacity però non è il solo allarme lanciato dagli operatori di filiera. Perché se la raccolta differenziata ristagna, diminuisce invece la qualità. Secondo le analisi del CIC, la purezza merceologica media della frazione umida raccolta è scesa dal 93,8% all’attuale 92,9%, con una percentuale di materiali impropri pari al 7,1% del materiale conferito. Più di due punti al di sopra del limite del 5% fissato dai Criteri Ambientali Minimi per i servizi di raccolta rifiuti, che prevedono “l’effettuazione di analisi merceologiche a carico della frazione umida e la messa in atto di azioni finalizzate a ridurre il contenuto di impurità merceologiche entro il 5%“, indicazioni tuttavia “fortemente disattese”, spiega il direttore del CIC Massimo Centemero. Secondo cui la qualità dell’organico sta peggiorando “anche a causa dell’utilizzo ancora elevato di sacchetti non compostabili nonostante il divieto“. Scarti che i gestori degli impianti smaltiscono a proprie spese, e che oltre a compromettere l’efficienza dei cicli di trattamento pesano su bilanci già in equilibrio precario.

 

Fonte https://www.riciclanews.it/primopiano/rifiuti-organici-e-allarme-differenziata-ferma-scarti-in-aumento-e-troppi-impianti_29946.html