La Piramide rovesciata, prove per un futuro sostenibile

Conoscere il nostro legame con il “ventre della terra”, in Medio Oriente come a Matera, in Africa come nello Yemen, è stato per decenni il lavoro di Pietro Laureano, consulente Unesco per le zone aride. Studiare l’insieme dei fiumi fossili del Sahara, e le conoscenze tradizionali, come le gallerie drenanti e i collegamenti fra queste e le oasi, lo ha portato a una serie di conclusioni, le cui conseguenze hanno ancora oggi molto da offrire alla ricerca.   Una fra queste è che le oasi non sono un fenomeno casuale, ma il risultato del lavoro dell’uomo. Nel suo La Piramide rovesciata, Laureano ne racconta la storia, ne delinea una classificazione e ne descrive i sistemi di irrigazione. E spiega come gli abitanti del Sahara hanno elaborato un sistema culturale che ruota intorno all’invenzione dell’oasi. Che si realizza mettendo in atto un “circuito virtuoso” in cui dune, vento, acqua, piante, e rifiuti organici, formano un microclima, con conseguenti “interazioni positive” tra fertilità, produzione di risorse e auto sostenibilità.   Elemento decisivo, l’acqua, la cui “produzione” è frutto di tecniche antichissime e tuttora funzionanti. Proprio così, l’acqua si può produrre. Nei climi aridi lo si fa da millenni, attraverso sistemi di lunghe gallerie drenanti che captano i flussi di umidità atmosferica e le precipitazioni occulte, trasformandoli in acque libere. “Miniere d’acqua”, come le chiama Laureano, queste “gallerie” esistono in tutto il mondo: foggara in Algeria, qanat in Persia, madjirat in Andalusia, hoyas nel Messico precolombiano, fino ai canali sotterranei per l’acqua costruiti a Taranto o nella Palermo di epoca musulmana. Durevoli nel tempo dunque e diffuse nello spazio, canalizzazioni e oasi continuano ancora oggi a prosperare. Gli equilibri ecologici su cui si reggono cedono però quando le contemporanee tecniche costruttive si impongono in modo pesante, devastandone le tracce e impoverendo le risorse.   Anche in questo caso, come abbiamo visto per Matera, il degrado ha inizio quando una modernità incapace di leggere le specificità di una cultura, la obbliga alle proprie scelte. Come di fronte a Matera, Laureano suggerisce di capovolgere i nostri paradigmi e guardare alla realtà con occhi diversi. Invece di domandarci se i popoli del Sahara riusciranno mai a sopravvivere in condizioni tanto difficili, dobbiamo piuttosto chiederci “quanto tempo ancora le nostre aree temperate potranno ospitare condizioni di vita possibile”. E già nel 1995 scriveva: “La civiltà fondata sulla concentrazione delle metropoli è ormai alle soglie del suo superamento”. Da allora l’espansione urbana non ha smesso di crescere. Ma se per esempio, proprio il Paese con il maggior numero di megalopoli, la Cina, ha iniziato a riflettere sulla rivitalizzazione dei centri rurali, forse la previsione di Laureano non era inverosimile. Segno che il lavoro di ricerca sulle tecniche e le conoscenze tradizionali promosso dall’Unesco e svolto da Laureano, sta iniziando a dare i suoi frutti. Perché l’intera operazione non si limita all’inventario di questi saperi antichi ma si propone di riconcepirli in chiave moderna e con tecnologie avanzate. Di usarli insomma come “serbatoio straordinario di innovazioni sostenibili”. E sulla scia della biomimetica, Laureano propone un’ecomimetica, capace di attingere a questa riserva di saperi, progettando il nuovo. Una sorta di ingegneria naturalistica del futuro, consapevole dei rischi ambientali a cui si va incontro tagliando il cordone ombelicale che ci lega alla terra.          

 

Professor Laureano, qual è a suo avviso il punto di forza della dichiarazione finale dell’Icomos  al G7 di Firenze?

Una nuova visione che non vede più la tutela del Patrimonio come un compito di musei, antiquari o accademie e afferma la centralità della gestione, la difesa tramite il cambiamento, la resilienza, la sostenibilità, il sapere fare e la partecipazione. Nei 45 anni della Convenzione del Patrimonio Mondiale  l’UNESCO e l’ICOMOS hanno compiuto una continua evoluzione teorica dalla nozione monumentale dei beni culturali a una concezione più ampia comprendente le qualità materiali e immateriali  fino al paesaggio e la centralità delle comunità. Oggi le sfide globali impongono di passare dalla teoria alla pratica applicando un modello basato sulla inclusione, la manutenzione, la bellezza del paesaggio, la sanità dell’alimentazione, tracciabilità dei prodotti, il riciclo, la conoscenza e auto valorizzazione locale, ponendo in primo piano i valori umani.  

 

Lei è stato recentemente nominato presidente dell’Icomos Italia: quali saranno le prossime strategie?

L’ICOMOS, come organismo consultivo dell’UNESCO per la Convenzione del Patrimonio Mondiale, ha in tutti i paesi un forte ruolo istituzionale e una  stretta  collaborazione con le strutture nazionali di tutela. Questo in Italia avviene in misura minore, come anche non si tiene sufficientemente conto di tutte le altre associazioni. L’ICOMOS Italia intende operare per una maggiore legittimazione dando voce al grande patrimonio dell’associazionismo italiano e aumentando il radicamento a tutti i livelli. Pur rimanendo un organismo di eccellenza con ingressi selezionati, intendiamo crescere in numero, dibattito, attività formative, presenza sul territorio, iniziative, autonomia regionale, partecipazione ai comitati scientifici nazionali e internazionali. Ci impegneremo nel mandato avuto dalle Nazioni Unite per l’attuazione degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030 (SDGs 2030) e la Nuova Agenda Urbana (NUA). Quest’attività è stata promossa con il convegno “L’ICOMOS Custodi del Patrimonio Cercatori del Significato, Forum della Partecipazione per il G7 della cultura di Firenze: Patrimonio e Sostenibilità negli SDGs 2030”, tenutosi presso la SS.ma Annunziata a Firenze il 31 marzo 2017. Al G7 ICOMOS sono intervenuti 230 soci ed esperti di tutto il mondo, associazioni, sindaci e società civile; sono stati tenuti 8 gruppi di lavoro, ricevute 50 nuove domande di iscrizione, firmati accordi per l’aiuto alle popolazioni colpite dal sisma, realizzate esposizioni su costruzioni sostenibili, salvaguardia delle Gualchiere di Firenze, Banca Mondiale delle Conoscenze Tradizionali e cultura del caffè espresso tradizionale italiano. Nell’ambito degli obiettivi dell’ONU, la nostra missione è sostenere e guidare l’azione dei Governi e degli altri operatori a livello nazionale, regionale e locale, fornendo gli strumenti più idonei, identificando le buone pratiche e monitorando tali processi.  

 

A Firenze il principe Carlo le ha chiesto un incontro che è stato, sembra, molto proficuo.

HRH il Principe di Galles è un convinto difensore dell’ambiente e delle tradizioni, un appassionato dei deserti, dove ha visitato molti miei progetti e ho con lui una lunga conoscenza e collaborazione. A Firenze si è informato del meeting ICOMOS Forum della Partecipazione e ha voluto discutere di progetti concreti cui dare il suo sostegno. Mantiene e vuole incrementare l'apporto già dato alla Banca Mondiale delle Conoscenze Tradizionali (TKWB) che dallo stadio di prototipo presto sarà aperta al grande pubblico, con l'apporto anche dell'accordo siglato tra l’ICOMOS e l’Università del Gusto di Pollenza. E' molto interessato a soluzioni rapide e sostenibili per le popolazioni colpite dal sisma e alla realizzazione di pratiche di esperienza partecipata come quelle previste nell'accordo tra ICOMOS, Parco nazionale del Gran Sasso e monti della Laga, Comune di Isola della Scala, IPOGEA e TON Gruppe, che prevede abitazioni modulari di qualità urbana, realizzabili anche in auto costruzione con l'uso di materiali locali compreso la terra cruda. Si è informato sul ruolo dell'ICOMOS nelle aree di conflitto e sui modi di sostenere i processi di ricostruzione. E' sensibile alla tutela delle Gualchiere di Firenze, un complesso di ruote idrauliche risalenti al 1300-1400, in stato di completo abbandono, intorno al cui progetto di recupero intende coinvolgere la sua organizzazione preposta alla tutela del patrimonio architettonico INTBAU. Si è detto pronto ad appoggiare le iniziative di ICOMOS e dell’Istituto Internazionale delle Conoscenze Tradizionali (ITKI) per l'attuazione dell’Agenda 2030.  

 

Lei è impegnato anche nel programma per la salvaguardia delle oasi.  Esiste un movimento di ritorno in questi luoghi?  

La presenza delle popolazioni nelle oasi non è mai diminuita. Si tratta in genere di luoghi strategici per le comunicazioni e l’utilizzo d’immensi deserti, quindi è raro un abbandono. I problemi sono piuttosto legati alla loro trasformazione rispetto alla gestione dello spazio, l’acqua e le coltivazioni.  E’ insufficiente  la comprensione delle interazioni complesse in questi ecosistemi delicati, la cui esistenza è determinata da specifiche conoscenze locali. Abbiamo studi su singole oasi, ma mancano una visione e un inventario complessivo,  resi difficili dalla mancanza di una classificazione e definizione tipologica. In Marocco è stato realizzato un repertorio delle oasi; in Algeria c’è un enorme lavoro sulle gallerie di captazione idrica; in Arabia stiamo lavorando all’iscrizione UNESCO di Al Ahsa, una delle più antiche e più grandi oasi del mondo; in Abu Dhabi, con progetto affidato a IPOGEA, abbiamo reso visitabili le oasi storiche di Al Ain, dotandole di misure di protezione e centri di interpretazione. Complessivamente aumenta l’interesse sia dell’UNESCO sia dei Paesi e sono state lanciate iniziative su internet.  In Italia la fondazione LabOasis si è data come scopo proprio l’inventario e la promozione sul web.  

 

Il Sahara è davanti a noi, lei sostiene in “La piramide rovesciata”.  Non come minaccia, ma come guida per il futuro.  A patto che impariamo a ribaltare categorie e modelli. Come per la città di Matera, anche qui siamo di fronte a un gioco di rovesci. Perché?

Alla fine degli anni ’70, impegnato come urbanista nel Sahara algerino, imparavo la cultura del deserto vivendo con i gruppi locali. Quando, stupiti di tanto interesse per le loro abitudini, le strutture arcaiche di terra cruda, i cunicoli sotterranei e i sistemi di raccolta di acqua, mi chiedevano da dove venissi, io descrivevo la mia città di origine, Matera, con le sue grotte e costumi arcaici. Così, in un gioco di ribaltamenti, i Tuareg diventavano loro gli scopritori meravigliati del mio mondo e si creava un’empatia favorevole allo scambio di conoscenze. Questo semplice modo di scherzare e conoscersi è diventato un formidabile strumento di comprensione, l’abitudine a pensare che molte nostre convinzioni sono frutto di preconcetti e le domande vanno ribaltate. Ci chiediamo come faranno le oasi e i nomadi a persistere nel mondo contemporaneo e invece occorre interrogarsi piuttosto su come la civiltà occidentale potrà sopravvivere nello spreco attuale di risorse e distruzione dell’ambiente. Nella storia, quando grandi imperi sono collassati, nuovi modelli di civiltà si sono affermati grazie a luoghi e comunità marginali, dove si sono perpetuate le conoscenze necessarie. Negli anni ‘90 sono tornato a Matera e ho applicato questo stesso metodo per l’interpretazione e l’iscrizione UNESCO della mia città. Ribaltando il paradigma che vedeva Matera come la “vergogna nazionale”, l’ho interpretata, attraverso lo studio dei sistemi d’acqua e l’abitare nelle caverne dalla preistoria, luogo geniale esempio di sostenibilità per il futuro. Questa nuova lettura ha innescato la valorizzazione della città, e negli ultimi anni l’impegno di tutta la comunità ne ha permesso la vittoria a Capitale Europea della Cultura nel 2019, sancendo l’esempio di Matera come una delle migliori pratiche al mondo di successo e resilienza urbana. I Tuareg immaginano il Sahara come un “gigante disteso”. Una visione  molto vicina all’idea di un deserto vivo. Che un giorno potrebbe volgere il suo “sguardo bruciante” verso l’altra sponda del Mediterraneo.  Siamo già arrivati a questo giorno, considerando ciò che sta accadendo ora, con l’arrivo di masse di profughi da zone di conflitti spesso provocati da catastrofi ambientali? Il Sahara è attuale ed è già tra noi. Quello che dobbiamo temere non è il deserto ma la desertificazione. Il deserto è una condizione instauratasi nel corso di ere geologiche con cui l’ambiente e le culture hanno avuto il tempo di interagire, sviluppando misure di adattamento e soluzioni straordinarie che hanno creato diversità biologica e culturale. La desertificazione è una condizione di degrado fisico e culturale. I cambiamenti climatici dovuti a processi innescati dall’uomo e il saccheggio delle risorse naturali determinano distruzione dei suoli e dell’ambiente, la cui rapidità impedisce gli adeguamenti necessari.  L’impatto con la modernità, la società consumistica, l’emigrazione, determinano il collasso dei valori tradizionali, la scomparsa delle conoscenze locali e della gestione ambientale. Da noi gli abbandoni delle montagne e delle campagne, la cementificazione delle coste e dei fiumi, l’espansione urbana incontrollata determinano desertificazione fisica. L’esodo dai paesi, la perdita delle conoscenze tradizionali, la fine della solidarietà e della cultura dell’accoglienza costituiscono desertificazione culturale e umana. Proprio la lezione del deserto e gli stessi flussi di popolazioni possono aiutarci a risolvere problemi come gli estremi climatici, il collasso degli ecosistemi e le enormi sfide globali che dobbiamo fronteggiare.   “La piramide rovesciata” è stato come uno spartiacque fra l’idea dell’oasi come fenomeno naturale e la realtà dell’oasi, frutto dell’intervento umano sull’ambiente. Questa sua tesi all’inizio non fu accettata. Cosa permise che venisse poi accolta? Non c’era una conoscenza profonda, e soprattutto dall’interno, di quei luoghi. Gli studi scientifici imponevano distacco e sguardo estraneo, viziato anche da una supponenza che impediva di leggere l’opera e il ruolo delle popolazioni nella edificazione dell’ambiente. Le oasi sono frutto di un enorme livello di conoscenze e tecniche talmente adattate e integrate con l’ambiente da farle apparire come fenomeni naturali. Anche la teoria ambientalista accettava questa concezione perché preferiva un’idea di luoghi naturali incontaminati avulsi dall’intervento umano. Con la maggiore conoscenza e l’emergere di una nuova sensibilità scientifica  le cose sono cambiate. Sulla base del rovesciamento di paradigma dell’oasi, oggi anche la genesi di luoghi considerati il modello principe della natura selvaggia, come le foreste pluviali amazzoniche, sono correttamente reinterpretati come paesaggi creati grazie all’interazione con i gruppi umani.   E quale intuizione ha dato il via alla ricerca che l’ha portata a leggere queste realtà in modo diverso, a scoprire le “miniere” d’acqua, le trame di canalizzazioni, le piramidi rovesciate? Come ho raccontato nell’introduzione alla ultima edizione del mio libro “La piramide rovesciata”, quando lavoravo al piano urbanistico di Bechar nel Sahara algerino, ogni fine settimana salivo a guardare il paesaggio da una grande duna davanti all’oasi di Taghit. L’abitato di terra cruda era stretto tra un grande cordone dunario che formava le propaggini del Grande Erg Occidentale, l’immenso deserto di sabbia, e il canyon di un fiume asciutto sahariano. Non vi era traccia di acqua, ma la striscia di palme e di coltivazioni che occupava il fondo del canyon e lo stesso abitato ne testimoniavano la presenza. Da dove arrivava l’acqua? Notavo che vicino a me, sulla cima della duna salivano alla stessa ora anche degli scarabei che si fermavano sulla cima inclinando in modo particolare la corazza in direzione della brezza. Possibile che venissero anche loro a guardare il paesaggio? Capii che gli scarabei condensavano sulla corazza il vapore d’acqua per bere, e trovai la risposta alle mie domande. Tutto è regolato dall’acqua. Invisibile ma in un ciclo perenne, l’acqua è sempre intorno e dentro di noi.  E’ il respiro del pianeta, di ogni organismo e anche delle oasi.  L’abitato attraverso tunnel sotterranei drena sotto le sabbie la brina che si deposita la notte in superficie. I giardini delle oasi, scavati nel suolo a forma d’imbuto, come piramidi rovesciate, raccolgono ogni più piccola traccia di umidità. Questa risale nei tronchi come linfa e torna, in un circuito di auto amplificazione, al cielo  traspirando dalle fronde delle palme che con la loro ombra proteggono le coltivazioni e la vita.   Lei ha insegnato all’Università di Algeri. Cosa le chiedevano  i suoi studenti,  e cosa lei ha trovato di più interessante in loro? Le è sembrato ci fossero sentimenti dominanti, particolari  orientamenti, necessità comuni fra questi giovani? Che nel frattempo sono diventati gli architetti e i paesaggisti maghrebini di oggi. Continua a collaborare con loro?   L’esperienza ad Algeri e il rapporto con i giovani studenti e tutto quello straordinario popolo e paese è stata fondamentale, affascinante e per tanti aspetti dolorosa. Ho vissuto i momenti che hanno preceduto il primo grande avanzare dell’estremismo islamico fino alla catastrofe e gli eccidi degli anni ’90, avvenimenti che hanno anticipato purtroppo fenomeni attuali in altri paesi. Algeri era una città cosmopolita, colta e aperta, capitale di un immenso paese leader del movimento dei non allineati. La politica era un impegno culturale e l’Università, dove s’insegnava in francese, un luogo di dibattito aperto e continuo. Nelle cineteche si proiettavano film internazionali e una straordinaria produzione locale. Le ragazze giravano in minigonna e, a volte, mettevano il velo per vezzo o perché avevano i capelli in disordine. Gli studenti erano per lo più formati sull’architettura moderna, ma l’interesse per le esperienze italiane nei centri storici e per una maggiore qualità degli spazi e delle forme architettoniche era enorme. Insieme a colleghi insegnanti e a ricercatori, sia algerini sia come me, cooperanti italiani, incominciammo a sperimentare tecniche e tipologie costruttive desunte dalla tradizione, come la terra cruda e il recupero degli habitat storici come la Casbah di Algeri. Risale a quel periodo la mia grande amicizia con l’archeologo Mounir Bouchenaki, poi diventato direttore presso l’UNESCO, e con l’architetto italiano Francesco Bandarin, attuale direttore dell’UNESCO alla cultura. Gli studenti sono tutti diventati professori e architetti con cui ho mantenuto rapporti molto stretti, ma purtroppo la gran parte non è rimasta nel paese. Perché le cose cambiarono. I proventi del petrolio non erano investiti per la popolazione e le periferie si riempivano di nuovi urbanizzati che spesso non avevano nelle abitazioni nemmeno lo spazio per dormire. Alla forte richiesta di partecipazione e democrazia si rispose con una islamizzazione che non aveva niente a che vedere con il sentimento religioso profondamente radicato nella popolazione. Nelle scuole si obbligò l’uso dell’arabo classico come lingua importata, poiché la gente conosceva l’arabo berbero maghrebino completamente diverso e il francese. Si formavano persone il cui pensiero non era veicolato dalla ricchezza di una lingua madre, ma da vuoti slogan propagandistici. L’integralismo islamico, inizialmente favorito dal potere come spauracchio contro le richieste democratiche, creò un’economia parallela che reclutava disadattati e minava lo Stato. Con quello che seguì, le liste di proscrizione e le uccisioni, la gran parte degli intellettuali dovette fuggire.   Il suo invito è quello di “proporre le condizioni di apparente arretratezza come fattori propulsivi e creativi”. Molte pratiche tradizionali sperimentate in un dato luogo sono inoltre generalizzabili in contesti diversi. Ci può fare un esempio di un recente intervento in questo senso? L’insegnamento delle oasi e quello di habitat tradizionali come Matera è l’uso accurato e parsimonioso delle risorse, che non sono sostanze da consumare o di cui appropriarsi. Sono parte di cicli, come quello dell’acqua, in cui occorre inserirsi sapientemente per poterli sempre usare e rinnovare. Questa lezione è oggi applicata nelle tecniche di architettura passiva, nel risparmio dell’acqua, il riciclaggio, l’energia verde e in generale in tutti i progetti basati su cicli auto sostenibili. “L’economia circolare” è diventato un termine comunemente utilizzato e un obiettivo diffuso. Ho applicato le tecniche di captazione dell’acqua nel progetto per l’eco villaggio di Alcatraz in Umbria ideato da Jacopo Fo e in molti miei restauri, realizzando il risparmio del 50% di acqua potabile. I gabinetti a produzione di compost dello Yemen sono oggi prodotti in ceramica e utilizzati in quartieri moderni. L’uso delle grotte di Matera per la climatizzazione è una pratica riprodotta nella moderna geotermia passiva. Nel deserto di Abu Dhabi è stato appena inaugurato il centro visita d’interpretazione dell’oasi, che ho progettato ispirandomi alle mimesi con l’ambiente delle tipologie costruttive tradizionali e dei carapaci degli insetti, realizzando  geometrie architettoniche adatte al clima e ai luoghi.   In che modo Internet e le nuove tecnologie possono “divenire la premessa per il superamento dei modelli distruttivi e autoritari”? La diffusione dell’informazione e la gestione autonoma costituiscono una possibilità di democrazia. In questo senso i personal computer e internet offrono enormi potenzialità. Purtroppo non è sempre evidente la completa indipendenza e libertà del sistema e qui le problematiche sono aperte. In generale le nuove tecnologie permettono indipendenza, e innovativi paradigmi scientifici desunti dalla natura stanno sostituendo le pratiche invasive dell’era industriale. Oggi è possibile costruire abitazioni che producono autonomamente acqua e energia. Si può quindi diventare indipendenti dalle grandi reti. Ma proprio sull’obbligo di essere utenti si basa il potere dei grandi gruppi economici. Questi nella storia hanno esercitato il loro dominio controllando e rendendo indispensabili merci e modi di consumo che sono diventati i veicoli del loro potere. Così abbiamo avuto l’era del petrolio, già sostituita dall’accaparramento dell’acqua. Domani si potrebbe voler controllare anche l’aria. Tutto questo avviene attraverso l’instaurazione di meccanismi feroci, dispotici, fautori di guerre o ammantati di democrazia, necessari a perpetuare il controllo sulle aree di produzione, il brutale sfruttamento del pianeta e dell’umanità. Il traffico degli schiavi e delle spezie creò le Compagnie delle Indie, all’origine delle Multinazionali che oggi si rivolgono alle comunicazioni, l’alimentazione, la conoscenza, la genetica e tutto ciò che è indispensabile alla vita. Soluzioni che permettono maggiore indipendenza, auto-valorizzazione e responsabilizzazione delle comunità contrastano questi processi. A questo scopo su internet abbiamo creato la Banca Mondiale delle Conoscenze Tradizionali. Una banca non dei soldi ma della cultura, con un sito (www.tkwb.org) attraverso cui tutti possono accedere gratuitamente a conoscenze e tecniche.   Quali aspettative sono  ancora ferme e perché? E quali sono invece i nuovi progetti? In Italia il grande dramma è il non rendersi conto pienamente dell’urgenza di cambiare tutto rispetto alla crisi in atto. Al collasso idrogeologico, ai rischi e le catastrofi si risponde con vecchi enti inutili, mentalità sorpassate, risposte di emergenza a spreco di soldi e grandi opere distruttive. Abbiamo bisogno invece di prevenzione, manutenzione, ingegneria naturalistica, riconversione ecologica.  Su questo potrebbe basarsi un rilancio dell’economia sorretta dal recupero delle aree abbandonate, la gestione del paesaggio, l’uso di tecniche innovative desunte dalla tradizione. L’inclusione dei rifugiati e degli immigrati, borse e contratti per ricercatori e giovani, darebbero linfa vitale a questi progetti. A livello internazionale è avvenuto un cambiamento  fondamentale di cui ancora non si avvertono le conseguenze. Nel settembre 2015, l'ONU ha tenuto a New York il vertice per l'adozione della nuova Agenda globale di Sviluppo Sostenibile per i prossimi 15 anni. I lavori sono stati inaugurati, alla presenza di 150 capi di Stato, da un intervento di Papa Francesco che a giugno del 2015 aveva promulgato l’Enciclica “Laudato sii” sul rispetto dell’ambiente. Nella conferenza è stato adottato un documento rivoluzionario. Il testo “Trasformare il nostro mondo: Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, che stabilisce 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il periodo di 2015-30 e rappresenta un impegno formale di tutti i Governi a passare all’azione. Per la prima volta si sostiene la necessità di un cambio di modello e la volontà di attuarlo con azioni concrete in luoghi specifici, città, piccoli paesi, comunità. L’applicazione dei negoziati globali dipende dalla volontà politica ed è sottoposta all’alea dei suoi cambiamenti e incertezze, ma ci sono acquisizioni che nessuno può cancellare: i progressi fatti per avere un mondo più giusto, sano, ospitale per l'intera umanità e gli altri organismi viventi, con le esperienze e aspirazioni delle comunità. Sono queste ultime il nostro campo di attività e speranza e solo facendo leva sulle comunità e la responsabilità della gente potremo dare probabilità al futuro che vogliamo. 

 

di Laura Mandolesi Ferrini 

 

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