Alcuni tecnologi pensano che l’automazione porterà ad un futuro senza lavoro, mentre altri sono più scettici su questi scenari. Negli ultimi decenni, è un fatto che in molti Paesi sviluppati e in Cina – ma anche in altre tigri asiatiche – i robot hanno sostituito i lavoratori umani. Ma fino a che punto? E’ la domanda a cui cerca di rispondere lo studio “Robots and Jobs: Evidence from US Labor Markets“, pubblicato da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e Pascual Restrepo della Boston University sul Journal of Political Economy, che, analizzando le cifre reali e i trend, prevede un fortissimo impatto della robotizzazione sul mondo del lavoro, anche se non si arriverà alla scomparsa dei lavoratori. Inoltre, prendendo ad esempio gli Usa, lo studio mostra che l’impatto dei robot sul mercato del lavoro varia ampiamente a seconda dell’industria e della regione prese in esame e può svolgere un ruolo notevole nell’esacerbare la disuguaglianza di reddito.
Acemoglu spiega su MIT News: «Abbiamo scoperto effetti negativi sull’occupazione piuttosto importanti, ma l’impatto del trend può essere sopravvalutato». Lo studio dimostra che negli Usa l’aggiunta di un robot ogni 1.000 lavoratori ha ridotto il rapporto nazionale occupazione-popolazione di circa lo 0,2%, e che in alcune aree la percentuale è più elevata. «Questo significa che ogni robot in più aggiunto nella produzione ha sostituito, in media, circa 3,3 lavoratori a livello nazionale. Nello stesso periodo di tempo, l’aumento dell’utilizzo dei robot sul posto di lavoro ha anche ridotto i salari di circa lo 0,4%. Abbiamo trovato effetti salariali negativi; i lavoratori stanno perdendo in termini di salari reali nelle aree più colpite, perché i robot sono abbastanza bravi a competere con loro».
I due ricercatori hanno anche confrontato la distribuzione di robot negli Usa con quella di altri Paesi, scoprendo che dal 1993 al 2007 le aziende statunitensi hanno introdotto quasi esattamente un nuovo robot ogni 1.000 lavoratori, mentre le imprese europee hanno introdotto 1,6 nuovi robot ogni 1.000 lavoratori.
Acemoglu fa notare: «Anche se gli Stati Uniti sono un’economia tecnologicamente molto avanzata, in termini di produzione e utilizzo e innovazione dei robot industriali, sono dietro rispetto a molte altre economie avanzate». Negli Usa, 4 industrie manifatturiere rappresentano il 70% dei robot: case automobilistiche (38% dei robot in uso), elettronica (15%), industria della plastica e chimica (10%) e produttori di metalli (7%). E’ quindi normale che l’area che ha subito l’impatto maggiore sull’occupazione sia quella dove è concentrata l’industria automobilistica (il Michigan) e che il posto dove il problema della disoccupazione tecnologica è più evidente sia Detroit. In queste aree, ogni robot sostituisce circa 6,6 posti di lavoro. Ma l’aggiunta di robot nella produzione avvantaggia le persone che lavorano in altre industrie e in altre aree degli Usa, tra le altre cose abbassando il costo delle merci. Questi vantaggi economici nazionali sono il motivo per cui i ricercatori hanno calcolato che l’aggiunta di un robot sostituisce in realtà 3,3 posti di lavoro nel Paese nel suo complesso.
Acemoglu approfondisce: «Quando si guarda all’utilizzo dei robot a livello aziendale, è davvero interessante perché c’è una dimensione aggiuntiva. Sappiamo che le aziende stanno adottando robot per ridurre i loro costi, quindi è abbastanza plausibile che le aziende che adottano i robot in anticipo si espandano a spese dei loro concorrenti i cui costi non stanno scendendo. Ed è esattamente quello che troviamo». Infatti, lo studio dimostra che «un aumento di 20 punti percentuali nell’uso dei robot nell’industria dal 2010 al 2015 ha portato a un calo del 3,2% dell’occupazione a livello di settore. Eppure, per le aziende che hanno adottato i robot durante quel periodo di tempo, le ore lavorate dei dipendenti sono aumentate del 10,9% e anche i salari sono aumentati modestamente».
Nel prossimo numero di American Economic Association: Papers and Proceedings verrà pubblicato anche lo studio “Competing with Robots: Firm-Level Evidence from France”, di Acemoglu, Clair Lelarge (economista di ricerca senior della Banque de France e del Center for Economic Policy Research) e Pascual Restrepo della Boston University, che hanno esaminato 55.390 aziende manifatturiere francesi, 598 delle quali hanno acquistato robot nel periodo 2010-2015 e che, pur rappresentando solo l’1% delle aziende manifatturiere, assommavano circa il 20% della produzione manifatturiera. In Francia le industrie manifatturiere che stanno aggiungendo più robot alle loro linee di produzione sono quelle farmaceutiche, della plastica, di alimenti e bevande, di metalli e macchinari, e le case automobilistiche. Quelle che nel 2010 al 2015 investivano meno nella robotizzazione erano carta e stampa, tessili – abbigliamento, elettrodomestici, mobili e industria mineraria.
Le imprese francesi che hanno aggiunto robot sono diventate più produttive e redditizie, ma l’automazione ha ridotto del 4 – 6% la quota del reddito da lavoro, anche se in genere, alimentando una maggiore crescita e intercettando nuove quote di mercato con gli investimenti tecnologici, hanno fatto crescere l’occupazione, al contrario delle imprese che non hanno aggiunto robot, che hanno visto diminuire l’occupazione del 2,5%, perdendo terreno rispetto ai loro concorrenti.
Acemoglu fa notare che «guardando il risultato, si potrebbe pensare [in un primo momento] che sia l’opposto del risultato degli Usa, dove l’adozione del robot va di pari passo con la distruzione dei posti di lavoro, mentre in Francia le aziende che adottano robot stanno espandendo i loro impiegati. Ma questo è solo perché si stanno espandendo a spese dei loro concorrenti. Quello che dimostriamo è che quando aggiungiamo l’effetto indiretto su quei concorrenti, l’effetto complessivo è negativo e paragonabile a quello che troviamo negli Stati Uniti».
Le dinamiche competitive che i ricercatori hanno trovato in Francia assomigliano a quelle emerse nel recentissimo studio “The Fall of the Labor Share and the Rise of Superstar Firms” pubblicato su The Quarterly Journal of Economics da un team internazionale di economisti guidato da David Autor e John Van Reenen del MIT e che sottolinea come «il calo della quota di lavoro negli Usa nel suo complesso è stato causato dai guadagni realizzati dalle “superstar firms” che trovano modi per abbassare la loro quota di lavoro e guadagnare potere di mercato. Mentre queste imprese d’élite possono assumere più lavoratori e persino pagarli relativamente bene man mano che crescono, nel complesso, nelle loro industrie la quota di manodopera diminuisce».
Commentando lo studio di Autor e Van Reenen, Acemoglu osserva che è complementare al suo ma che «una leggera differenza è che questi effetti per le “superstar firms” potrebbero provenire da molte fonti diverse. Avendo questi dati tecnologici individuali a livello di impresa, siamo in grado di dimostrare che gran parte di questo riguarda l’automazione». Quindi, mentre gli economisti danno molte possibili spiegazioni per il declino della quota di lavoro in generale – comprese la tecnologia, la politica fiscale, i cambiamenti nel mercato del lavoro, e altro ancora – Acemoglu punta il dito sulla tecnologia e l’automazione in particolare, soprattutto per quanto riguarda la Francia: «Ora, una grande parte della letteratura [economica] sulla tecnologia, la globalizzazione, le istituzioni del mercato del lavoro, si sta rivolgendo alla questione di ciò che spiega il declino della quota di lavoro. Molte di queste sono ipotesi ragionevolmente interessanti, ma in Francia sono solo le aziende che adottano i robot – e sono aziende molto grandi – che stanno riducendo la loro quota lavoro, e questo è ciò che spiega l’intero declino della quota lavoro nella produzione francese. Questo sottolinea davvero che l’automazione, e in particolare i robot, è una parte fondamentale per capire cosa sta succedendo».
La tecnologia moderna colpisce i diversi lavoratori in modi diversi: in alcuni casi i colletti bianchi – designer, ingegneri – diventano più produttivi grazie a software sofisticati, mentre l’automazione, dai robot ai sistemi telefonici di risposta automatica, ha semplicemente sostituito gli operai, gli addetti alla reception e molti altri tipi di dipendenti. Per Acemoglu «l’automazione è fondamentale per comprendere le dinamiche della disuguaglianza». Lo studio dimostra che nelle industrie che adottano l’automazione «lo “spostamento” (o perdita di posti di lavoro) medio dal 1947 al 1987 è stato del 17% dei posti di lavoro, mentre il “ripristino” medio (nuove opportunità) è stato del 19%. Ma dal 1987 al 2016 lo spostamento è stato del 16%, mentre il ripristino è stato solo del 10%». Detto brutalmente, i posti persi in fabbrica o al call center non tornano.
Acemoglu spiega ancora: «Molte delle nuove opportunità di lavoro offerte dalla tecnologia dagli anni ’60 agli anni ’80 hanno giovato ai lavoratori con scarse competenze. Ma dagli anni ’80, e in particolare negli anni ’90 e 2000, c’è stato un doppio problema per i lavoratori con scarse competenze: sono colpiti dallo spostamento e dai nuovi compiti che stanno arrivando, stanno rimanendo indietro e avvantaggiando i lavoratori ad elevata professionalità».
Nel nuovo studio “Unpacking Skill Bias: Automation and New Tasks” che verrà pubblicato nel numero di maggio dell’American Economic Association: Papers and Proceedings, utilizzando dati empirici di 44 settori rilevanti, Acemoglu e Restrepo realizzano un modello degli effetti tecnologici sul mercato del lavoro e dicono che «il risultato è un’alternativa alla modellizzazione economica standard in questo campo, che ha enfatizzato l’idea di un cambiamento tecnologico “orientato alle competenze”, il che significa che la tecnologia tende a favorire i lavoratori più qualificati rispetto ai lavoratori a bassa competenza, aiutando maggiormente i salari di lavoratori altamente qualificati, mentre il valore degli altri lavoratori ristagna. Pensate nuovamente agli ingegneri altamente qualificati che utilizzano nuovi software per completare più progetti più rapidamente: diventano più produttivi e preziosi, mentre i lavoratori privi di sinergia con le nuove tecnologie sono comparativamente meno apprezzati».
Tuttavia, Acemoglu e Restrepo pensano che lo scenario attuale rappresenti solo l’inizio di un trend: «Laddove si verifica l’automazione, i lavoratori con competenze inferiori non si limitano a non ottenere maggiori guadagni; vengono attivamente spinti all’indietro finanziariamente». I due economisti fanno notare che «il modello standard di cambiamento distorto dalle abilità non tiene pienamente conto di questa dinamica; stima che i guadagni di produttività e i salari reali (adeguati all’inflazione) dei lavoratori dovrebbero essere più alti di quanto non siano realmente. Più specificamente, il modello standard implica una stima di circa il 2% di crescita annuale della produttività dal 1963, mentre i guadagni di produttività annui sono stati di circa l’1,2%; stima inoltre una crescita dei salari per i lavoratori a bassa competenza di circa l’1% all’anno, mentre dagli anni ’70 i salari reali per i lavoratori a bassa competenza sono in realtà diminuiti». Acemoglu conferma: «La crescita della produttività è stata scarsa e i salari reali sono diminuiti. La richiesta di competenze è diminuita quasi esclusivamente nei settori che hanno visto molta automazione. L’automazione è un caso speciale all’interno della più ampia serie di cambiamenti tecnologici sul posto di lavoro. L’automazione è diversa dal cambiamento tecnologico orientato all’abilità, perché può sostituire i posti di lavoro senza aggiungere molta produttività all’economia».
Al MIT fanno l’esempio di un sistema di autocontrollo in un supermercato o in farmacia: «Riduce i costi della manodopera senza rendere l’attività più efficiente. La differenza è che il lavoro viene svolto da noi, non dai dipendenti retribuiti». Questi tipi di sistemi sono quelle che Acemoglu e Restrepo hanno definito ” tecnologie così così”, per il valore minimo che offrono. «Quindi le tecnologie non stanno davvero facendo un lavoro fantastico, nessuno è entusiasta di passare uno a uno i suoi articoli alla cassa e a nessuno piace quando la compagnia aerea che chiama li mette in attesa su un menu automatizzato. Così le tecnologie sono dispositivi che consentono di risparmiare sui costi alle aziende, che riducono leggermente i costi ma non aumentano di molto la produttività. Creano il solito effetto di spostamento, ma non avvantaggiano così tanto gli altri lavoratori e le aziende non hanno motivo di assumere più lavoratori o pagare di più altri lavoratori».
Per l’automazione le cose sono molto cambiate dai tempi pionieristici del 1987 e oggi, con i software e intelligenza artificiale, tutto è diventato intrinsecamente spiazzante per i lavoratori.
Acemoglu conclude: «Lo spostamento è davvero il centro della nostra teoria e ha implicazioni più gravi, perché la disparità salariale è associata a cambiamenti dirompenti per i lavoratori. E’ una spiegazione molto più luddista. Dopotutto, i luddisti – i lavoratori delle fabbriche tessili britanniche che distrussero macchinari negli anni 1810 – potrebbero essere sinonimo di tecnofobia, ma le loro azioni furono motivate da preoccupazioni economiche; sapevano che le macchine stavano sostituendo i loro lavori. Lo stesso spostamento continua oggi, sebbene le conseguenze nette negative della tecnologia sui posti di lavoro non siano inevitabili. Potremmo forse trovare più modi per produrre tecnologie che migliorano il lavoro, piuttosto che innovazioni che sostituiscono il lavoro. Non è tutto negativo, non c’è nulla che dica che la tecnologia è dannosa per i lavoratori. È la scelta che facciamo sulla direzione di come sviluppare la tecnologia che è fondamentale».
di Umberto Mazzantini
Fonte: http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/quanti-posti-di-lavoro-sostituiscono-i-robot/