Cop26, gli ambientalisti: accordo debole e inadeguato a fronteggiare l’emergenza climatica

Secondo il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, la sofferta intesa firmata alla COP16 Unfccc non è delle migliori: «L’Accordo di Glasgow è inadeguato a fronteggiare l’emergenza climatica soprattutto per le comunità più vulnerabili dei paesi poveri, ma si mantiene ancora vivo l’obiettivo di 1.5°C. Tra i punti dolenti c’è la questione cruciale dell’abbandono dei combustibili fossili affrontata in maniera inadeguata, anche se la loro strada è ormai segnata. E il fatto che non sia stato fatto nessun passo in avanti sulla creazione del fondo Loss and Damage Facility per aiutare i Paesi poveri a fronteggiare la crisi climatica, e sui cui a Glasgow è mancato un forte impegno da parte dell’Europa. Per fronteggiare la crisi climatica e per centrare l’obiettivo di 1.5° C è fondamentale che tutti i Paesi più avanzati, a partire dall’Italia, aumentino al più presto i propri impegni di riduzione delle emissioni climalteranti e garantiscano un adeguato sostegno finanziario all’azione climatica dei Paesi più poveri». 

 

Legambiente analizza più dettagliatamente l’Accordo di Glasgow e secondo l’associazione ambientalista ne emerge che «Il Glasgow Climate Pact purtroppo ha rinviato al prossimo anno l’adozione della roadmap per ridurre le emissioni climalteranti al 2030 in linea con la soglia critica di 1.5° C. Sarà la COP27, che si tiene il prossimo anno in Egitto, a dover adottare la roadmap per dimezzare le attuali emissioni al 2030 attraverso la revisione annuale degli impegni di riduzione a partire dal 2022. Grazie anche alla riduzione graduale del carbone nelle centrali senza ccs ed all’eliminazione dei sussidi inefficienti alle fonti fossili, in modo da accelerare una giusta transizione energetica. Per la prima volta nei negoziati sul clima, con l’Accordo di Glasgow, si affronta la questione cruciale dell’abbandono dei combustibili fossili, anche se ancora in maniera inadeguata. Ma la loro strada è ormai segnata».

 

Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente, spiega che  «Se si vuole per davvero fronteggiare l’emergenza climatica va avviato al più presto il phase-out di tutti i combustibili fossili e dei loro incentivi. L’Europa deve fare da apripista cogliendo l’occasione della discussione in corso sul nuovo Pacchetto Clima ed Energia. Un pacchetto legislativo non più “Fit For 55”, ma” Fit For 1.5”. Ossia in grado di consentire una riduzione delle emissioni di almeno il 65% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, accelerando il phase-out di carbone, gas e petrolio e di tutti i sussidi ai combustibili fossili”.

 

L’Accordo di Glasgow conferma l’impegno dei paesi più ricchi a garantire un aiuto finanziario, per la mitigazione e l’adattamento, di 100 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2020-2025: 600 miliardi complessivi da elargire attraverso il piano proposto dalla presidenza britannica. Nessun passo in avanti, invece, è stato fatto sulla creazione del Loss and Damage Facility. Si tratta del fondo per aiutare le comunità vulnerabili dei paesi più poveri a far fronte ai danni e alle perdite dovuti ai disastri climatici, in modo da consentire una rapida ricostruzione e ripresa economica dei territori colpiti, evitando così anche il preoccupante aumento dei profughi climatici.

 

Ciafani aggiunge: «Serve ora un forte impegno dell’Europa, mancato a Glasgow, per costruire una larga alleanza a sostegno del Loss and Damage Facility in modo che diventi finalmente realtà proprio alla “COP Africana” del prossimo anno.  Anche l’Italia deve fare la sua parte. Non solo sostenendo l’azione europea per la creazione del Loss and Damage Facility, ma garantendo anche la sua “giusta quota” dell’impegno collettivo di 100 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2020-2025 destinati all’azione climatica dei paesi più poveri. Si tratta di almeno 3 miliardi di euro l’anno che possono essere facilmente reperiti attraverso il taglio dei sussidi alle fonti fossili da inserire al più presto nella legge di bilancio in discussione».

 

Per Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International, «E’ un accordo debole e manca di coraggio. L’obiettivo di limitare il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5° C è appeso a un filo ma è stato dato un chiaro segnale: l’era del carbone è agli sgoccioli e questo conta. Mentre si riconosce la necessità di tagliare in modo drastico le emissioni già in questo decennio, gli impegni sono stati però rimandati al prossimo anno. I giovani cresciuti con la crisi climatica non potranno tollerare altri rinvii. Perché dovrebbero quando lottano per il loro futuro? Il vertice di Glasgow avrebbe dovuto impegnare i governi a ridurre le emissioni di gas serra per restare al di sotto di 1,5° C, ma non è andata così e nel 2022 dovranno tornare al tavolo dei negoziati con obiettivi più ambiziosi. Tutto quello che siamo riusciti a ottenere è stato solo grazie ai giovani, ai leader indigeni, agli attivisti e ai Paesi più esposti agli impatti della crisi climatica, che hanno strappato qualche impegno concesso a malincuore. Senza di loro, questi negoziati sarebbero stati un completo fallimento. Il nostro clima, un tempo stabile, è stato profondamente alterato, come dimostrano ogni giorno gli incendi, gli uragani, la siccità e la fusione dei ghiacciai. Il tempo è scaduto e per la nostra stessa sopravvivenza dobbiamo mobilitarci urgentemente con tutte le nostre forze affinché si ponga fine all’era dei combustibili fossili. La COP26 ha fatto qualche progresso nell’adattamento ai cambiamenti climatici: i Paesi sviluppati hanno finalmente cominciato ad ascoltare le richieste dei Paesi in via di sviluppo, aumentando i finanziamenti necessari per affrontare l’aumento delle temperature. E’ stato riconosciuto che i Paesi più vulnerabili stanno già subendo perdite e danni reali a causa della crisi climatica, ma quel che è stato promesso non si avvicina neppure a ciò che sarebbe necessario. Questo problema deve essere in cima all’agenda dei Paesi sviluppati alla COP che l’anno prossimo si terrà in Egitto. La parte del testo sull’eliminazione graduale del carbone e dei sussidi ai combustibili fossili è un debole compromesso, ma si tratta comunque di un passo avanti, e l’attenzione data alla necessità di una transizione equa è essenziale. La richiesta di ridurre le emissioni del 45% entro la fine di questo decennio è in linea con ciò che occorre fare per rimanere al di sotto di 1,5° C e questo accordo riconosce la scienza. Ma dovrà essere implementato. La truffa delle compensazioni delle emissioni viene purtroppo agevolata dall’accordo di Glasgow, con la creazione di nuove e intollerabili scappatoie che mettono in pericolo la natura, i popoli indigeni e l’obiettivo stesso di limitare le temperature a 1,5°C. Il segretario generale delle Nazioni Unite ha annunciato che un gruppo di esperti esaminerà il mercato delle misure di compensazione, ma resta ancora molto lavoro da fare per porre fine al greenwashing e agli imbrogli che avvantaggiano i grandi inquinatori».

 

Il Wwf in una nota ricorda che «Siamo venuti a Glasgow aspettandoci dai leader globali un accordo che prevedesse un cambio di passo nella velocità e nella portata dell’azione climatica. Anche se questo cambio di passo non è arrivato, e il testo concordato sia lontano dalla perfezione, ci stiamo muovendo nella giusta direzione.  I governi dovevano fare progressi per risolvere tre grandi lacune: la mancanza di obiettivi di riduzione delle emissioni nel breve periodo, la mancanza di regole per fornire e monitorare i progressi fatti, e l’insufficiente finanziamento all’azione climatica necessaria per indirizzare il mondo verso un futuro più sicuro».

 

Il Wwf riconosce che alcuni progressi sono stati fatti: «Ora i Paesi hanno nuove opportunità per realizzare ciò che sanno che deve essere fatto per evitare la catastrofe climatica. Ma se non faranno leva sull’attuazione concreta dell’azione per il clima e non mostreranno risultati sostanziali, la loro credibilità sarà sempre a rischio» Ma anche il Panda sottolinea che «La COP26 si è conclusa con decisioni deboli in una serie di aree importanti, tra cui l’adattamento, il cosiddetto Loss and Damage (perdite e danni) e la finanza climatica. Occorre però riconoscere che nel testo ci sono degli appigli significativi che i paesi possono sfruttare per aumentare le proprie ambizioni climatiche a breve termine e per implementare politiche climatiche vincolanti. Questa COP per la prima volta menziona i sussidi ai combustibili fossili in un testo finale approvato. Questo è un elemento importante, così come il riconoscimento della necessità di accelerare gli investimenti in energia pulita, garantendo allo stesso tempo una giusta transizione».

 

Il primo testo è stato ben accolto dal Wwf, che però «E’ rimasto profondamente deluso dall’annacquamento del linguaggio sul carbone che è passato da phase-out a phase-down per un singolo paese, l’India» e sottolinea che «Sono necessari un linguaggio forte, nonché scadenze e modi di operare chiari se si vuole raggiungere la transizione necessaria da tutti i combustibili fossili. I Paesi sanno che non si potrà mai risolvere la crisi climatica senza una profonda decarbonizzazione in ogni settore, azioni concrete per fermare la perdita della natura, e un restauro su larga scala».

 

Il WWF accoglie con favore la richiesta di un’accelerazione a breve termine degli impegni per il clima entro il 2022: «Siamo nel mezzo di un’emergenza climatica, ma ancora in tempo. Con un riscaldamento ben al di sopra dei 2°C, secondo recenti analisi, il futuro sarà catastrofico per milioni di persone e per la natura. I Paesi devono raggiungere collettivamente il 50% di riduzione di CO2 entro il 2030 e innalzare i propri impegni di conseguenza nel 2022 rispettando l’obiettivo di 1,5°C. E’ importante il fatto che il testo finale riconosca il ruolo critico della natura nel raggiungimento dell’obiettivo di 1,5°C, incoraggi i governi a incorporare la natura nei loro piani climatici nazionali e stabilisca un dialogo annuale sugli oceani per la mitigazione basata sugli oceani. La natura è veramente arrivata alla COP26. I leader stanno finalmente riconoscendo che l’azione per proteggere e ripristinare la natura deve essere al centro della nostra risposta alla crisi climatica, insieme ad una completa trasformazione del sistema energetico. Il riconoscimento del ruolo della natura da parte della COP26 deve spingere tutti i paesi a considerare il contributo della natura nei loro piani climatici nazionali, anche nell’adattamento.

 

Il evidenzia anche «Il contributo che le soluzioni basate sulla natura hanno nell’aumentare la resilienza dei più vulnerabili e nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tutto questo deve essere fatto insieme ai custodi locali della natura, specialmente le popolazioni indigene e le comunità locali, in prima linea e al centro di questa agenda. Il concetto di soluzioni basate sulla natura è stato rimosso dal testo finale a Glasgow e deve essere ripreso alla COP27 a Sharm El Sheikh».

 

Durissimo il commento di A Sud: «Occorrerà attendere infatti altri 12 mesi, la fine del 2022, per fare un bilancio sulla revisione (si spera al rialzo) degli NDC nazionali, ovvero dei contributi di riduzione delle emissioni che ogni Paese parte è chiamato a elaborare. Nel frattempo, nel capitolo dedicato alla mitigazione si accenna alla riduzione al 2030 delle emissioni di gas a effetto serra, invitando ad accelerare l’eliminazione dell’energia prodotta da quelle fonti la cui tecnologia “non permette di abbattere le emissioni”. Tradotto: riduciamo il carbone ma via libera al gas e alle tecnologie come la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Tecnologie che non risolvono il problema ma lo spostano in avanti nel tempo, oppure dall’atmosfera al sottosuolo. Con le decisioni in campo, includendo anche i timidi passi di Glasgow, gli scenari a fine secolo sono desolanti. Dai +2,4° C calcolati dal CAT ai quasi +5° C prospettati nel peggior scenario IPCC al 2100. Significa indicatori climatici impazziti, migrazioni di massa, conflitti armati. La fine del mondo per come lo conosciamo».

 

Marica Di Pierri, portavoce di A Sud, fa notare che «Gli impegni presi a Glasgow spostano ancora in avanti gli orologi rimandando ai prossimi incontri la decisione più importante: l’aumento dei target di riduzione delle emissioni. Non c’è neanche l’ombra dell’atteso accordo globale sul phase out dal carbone. Sul metano il passo avanti è minimo. I 5,7 trilioni di dollari di sussidi globali alle fonti fossili potranno continuare ad essere erogati senza disturbo. A meno che non siano “inefficienti” dunque degni di essere “gradualmente” eliminati. Il multilateralismo sarà pure faticoso e basato sul compromesso, ma l’incapacità di mettere sul tavolo impegni concreti ha un prezzo troppo alto da pagare, è un futuro di devastazione imposto come destino a tutti i popoli del pianeta».

 

Dal testo finale sono poi spariti i 100 miliardi promessi entro il 2023 ai Paesi meno sviluppati (less developed). Un impegno formulato per la prima volta nel 2009 alla COP15 di Copenaghen e confermato a Parigi nel 2015, ma da allora mai tradotto in realtà. Laura Greco, presidente di A Sud, conclude: «E’ incredibile che anche a Glasgow, come in tutte le occasioni precedenti, una volta arrivati al punto, i Paesi industrializzati si siano tirati indietro, non riconoscendo le proprie responsabilità storiche e ignorando che il trasferimento di fondi e tecnologie è essenziale per correggere il carico di ingiustizia e di violazione dei diritti umani che l’emergenza climatica scarica sui Paesi più vulnerabili».

 

Fonte: https://greenreport.it/news/inquinamenti/cop-26-gli-ambientalisti-accordo-debole-e-inadeguato-a-fronteggiare-lemergenza-climatica/