A causa della crisi climatica in corso, il 2022 è stato per l’Italia l’anno più caldo almeno dal 1800 e nel corso dell’anno sono piovuti circa 50 miliardi di metri cubi di acqua in meno. Ma nel 2023 la siccità sta avanzando ancora più rapidamente lungo lo Stivale, soprattutto a nord.
L’ultimo report settimanale dell’Osservatorio Anbi sulle risorse idriche, che riunisce i Consorzi di bonifica a livello nazionale, informa che la portata del fiume Po è scesa a toccare mc/s 338,38 al rilevamento finale di Pontelagoscuro, quando «nel siccitosissimo 2022 questi dati vennero registrati il 4 giugno. Il più importante corso d’acqua italiano vive una condizione di crisi idrica estrema, da monte a valle, con ben 40 giorni di anticipo sul drammatico anno scorso».
Per questo l’ingressione salina sta già condizionando un’altra stagione agricola nel delta polesano, i cui bracci sono colmi di acqua marina, inquinando falde e terreni.
In Lombardia manca il 58,4% dell’acqua in termini di riserve idriche rispetto alla media storica (-12,55% rispetto al 2022); nel più grande lago italiano, quello di Garda, rispetto all’anno scorso, manca oltre mezzo metro d’acqua; anche in Sardegna manca all’appello oltre il 10% dell’acqua stoccata, segnalando un livello di “pericolo” per tutti gli invasi della parte centro-settentrionale della regione, che dovranno ridurre l’erogazione di acqua. Un problema che non riguarda certo soltanto l’isola.
Il bollettino del Cnr di marzo, riporta l’Osservatorio Anbi, certifica che il 35,3% delle aree agricole irrigue del Paese, negli scorsi 24 mesi, ha sofferto di siccità severa-estrema.
«Settimana dopo settimana si aggrava la situazione idrica nel nord Italia con crescenti conseguenze sull’economia e l’ambiente dei territori. Se l’anno scorso, la siccità costò 13 miliardi di euro al sistema Paese, il 2023 si preannuncia peggiore, nell’attesa del via operativo a piani e provvedimenti indispensabili per incrementare la resilienza alla crisi climatica», commenta il presidente Anbi Francesco Vincenzi.
La cabina di regia governativa, varata una settimana fa e presieduta da un ministro negazionista della crisi climatica – il leghista Matteo Salvini –, ancora non si è neanche riunita. Eppure le cose da fare non mancano.
Nell’ultimo anno l’Italia si è allontanata ulteriormente dalla strada per la decarbonizzazione, e nel mentre i vetusti acquedotti italiani – il 60% è in funzione da più di 30 anni – perdono oltre il 40% della risorsa idrica che trasportano (anche a causa di scarsi investimenti nel servizio idrico, pari a 56€ annui procapite contro una media Ue di 82€).
Manca al contempo una strategia per incrementare lo stoccaggio della poca acqua disponibile e per favorire la ricarica delle falde. Il Piano laghetti, proposto da Anbi insieme a Coldiretti, risponde alla prima esigenza. Ma servono tempo e soldi – la prima tranche del piano prevede investimenti per 3,2 mld di euro – ed è dunque necessario agire su più fronti puntando sulle soluzioni basate sulla natura (Nbs), ad esempio rinaturalizzando i fiumi e la rete idrica superficiale, o realizzando “città spugna” e Aree forestali d’infiltrazione per ricaricare le falde.
Anche in questo caso però il tempo è un fattore fondamentale, perché di acqua ce n’è sempre meno e ormai anche le riserve di neve se ne sono andate, come documentano dalla Fondazione Cima: «I dati parlano chiaro. Ad aprile, a livello nazionale, il deficit rispetto ai precedenti 12 anni è del -64%. Con questa scarsità dovremo fare i conti per le nostre necessità d’acqua in primavera ed estate».
Le Alpi segnano addirittura un -67% rispetto al periodo storico, e sono proprio questi monti i più importanti per quanto riguarda la disponibilità d’acqua nella nostra penisola: riforniscono infatti il bacino del Po, il più esteso del paese e di enorme importanza economica. Anche sugli Appennini, comunque, il deficit si attesta a -58%.
«I dati più recenti indicano che la neve oggi disponibile a metà aprile è la stessa quantità che, storicamente, abbiamo nel mese di giugno inoltrato, specialmente sul Po – spiega il ricercatore Cima Francesco Avanzi – In altre parole, è come se ci trovassimo due mesi in avanti rispetto alla classica fusione nivale stagionale. E se già lo scorso anno la scarsità di neve si era fatta sentire nel corso della siccità estiva, oggi chiudiamo con appena la metà della neve disponibile rispetto al 2022».
Se, dunque, il 2022 era già stato un anno caratterizzato dalla siccità, l’estate 2023 non sarà in condizioni migliori. Proprio quando le nostre attività, dall’agricoltura alla produzione di energia idroelettrica – ma anche gli ecosistemi naturali – avranno maggior bisogno di acqua, questa probabilmente scarseggerà, perché non potremo contare su quella riserva strategica, la neve, che dovrebbe essere retaggio dell’inverno, e perché è già il secondo anno di siccità di fila per l’Italia.
A causa delle temperature al rialzo guidate dalla crisi climatica, sono mancati mesi di condizioni idonee (nevicate abbondanti e temperature sufficientemente rigide) facendo patire anche le falde idriche: la fusione nivale in genere è lenta e costante, il metodo perfetto affinché l’acqua si infiltri nei terreni e quindi ricarichi le nostre falde. Che invece sono sempre più asciutte.
di Luca Aterini
Fonte: https://greenreport.it/news/clima/clima-la-siccita-continua-ad-accelerare-per-neve-e-acqua-litalia-e-gia-a-giugno/