Il suolo italiano è malato. Re Soil: ecco i numeri più preoccupanti che lo dimostrano

Re Soil Foundation ha presentato il primo rapporto sulla salute del suolo in Italia “Il suolo italiano ai tempi della crisi climatica”, dal quale emerge che ogni 100 metri quadri di suolo, 47 presentano qualche forma di degrado.

 

L’idea del rapporto è di Re Soil Foundation, fondazione creata da Università di Bologna, Politecnico di Torino, Coldiretti e Novamont. Ma la pubblicazione è un’opera a più mani, resa possibile dal coinvolgimento del Joint Research Center della Commissione europea, CREA (Consiglio per la Ricerca e l’Economia Agraria), dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca ambientale), Ministero dell’Ambiente e dell’Università di Bologna.

 

Il rapporto mostra che «l’80% dei terreni agricoli, pari al 23% del territorio nazionale, è sottoposto a fenomeni erosivi e il 68% ha perso più del 60% del carbonio organico originariamente presente in essi. Il 23% dei suoli agricoli presenta livelli eccessivi di azoto mentre il 7% è sottoposto a fenomeni di salinizzazione secondaria. Le aree soggette a rischio alto o molto alto di compattazione coinvolgono l’8% del territorio. E poi ancora c’è il problema contaminazione: quella da alti quantitativi di rame riguarda il 14% della superficie italiana, mentre l’1% presenta elevate concentrazioni di mercurio».

 

Cifre note agli addetti ai lavori ma sconosciute a buona parte dell’opinione pubblica, degli operatori dell’informazione e degli amministratori pubblici. na fotografia che, a pochi giorni dal World Soil Day della Fao,  evidenzia, quanto il problema suolo sia complesso e, al tempo stesso, ancora troppo sottovalutato.

 

Una sottovlutazione che preoccupa anche Maurizio Martina, vicedirettore generale Fao, che nella prefazione del rapporto avverte che «La degradazione del suolo rappresenta una grave minaccia per il Pianeta. Dai suoli dipende infatti una serie di servizi ecosistemici fondamentali per il benessere umano, come la protezione dell’ambiente e della biodiversità, la tutela del paesaggio, l’architettura e i processi urbani, oltre alle attività agricole. Il 95% del cibo globale viene prodotto direttamente o indirettamente dal suolo. Con il tasso corrente di erosione si stima che circa il 90% dei suoli sarà a rischio entro il 2050. Senza un’inversione di tendenza, potremmo perdere la totalità della terra fertile e coltivabile entro i prossimi 60 anni».

 

Giulia Gregori, del consiglio di amministrazione di Re Soil Foundation, aggiunge: «Il degrado del suolo è ancora oggi la Cenerentola delle emergenze ambientali. La sua sottovalutazione rappresenta un ostacolo all’adozione delle misure indispensabili per invertire la tendenza e riportare in salute i suoli italiani. Con questa pubblicazione abbiamo quindi cercato di riunire i dati più aggiornati e completi a nostra disposizione. Le dimensioni e le implicazioni dell’emergenza suolo sono ovviamente ben conosciute dagli addetti ai lavori, ma lo sono meno tra gli operatori dell’informazione, i decisori pubblici e l’opinione pubblica. In questo modo speriamo di aiutare ad innalzare l’attenzione su questo problema che ha già oggi impatti gravi e multiformi e richiede quindi di essere affrontato attraverso un approccio olistico che coinvolga tutte le competenze e le esperienze virtuose che ruotano attorno al Pianeta-suolo».

 

Uno dei problemi da affrontare con maggiore urgenza è la mancanza di dati adeguati. Luca Montanarella del JRC e vincitore del Glinka World Soil Prize della Fao, spiega a sua volta che «A nostra disposizione   abbiamo dati assolutamente parziali che non permettono una valutazione dettagliata di ogni singolo fenomeno su scala nazionale. Per una valutazione oggettiva dello stato dei suoli su tutto il territorio nazionale, sono indispensabili dati dettagliati, raccolti secondo procedure standardizzate e ripetuti nel tempo. Al momento, questi dati sono disponibili solo parzialmente».

 

Lacune alle quali  cerca di rispondere la proposta di direttiva sul monitoraggio del suolo presentata dalla Commissione europea e che, nelle prossime settimane, inizierà l’iter parlamentare di approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio Ue.

 

Ma a Re Soil fanno notare che «I dati a nostra disposizione, sono in ogni caso, estremamente preoccupanti. È il caso del carbonio organico, componente che ha un ruolo vitale per il funzionamento dell’ecosistema suolo e per la sua fertilità: la maggior parte dei suoli italiani, in particolare quelli coltivati, hanno un contenuto di carbonio organico da molto basso (< 1%) a basso (1÷2%), in ogni caso inferiore al limite considerato necessario per poter considerare sano un suolo».

 

Claudio Ciavatta, professore ordinario di chimica agraria all’università di Bologna, ricorda che «La carenza della sostanza organica  interessa territori da nord a sud dell’Italia. Sono particolarmente colpite alcune aree del Piemonte nella zona del cuneese, dell’Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, gran parte dei territori della Sicilia e parte della Sardegna. Una situazione dannosa sia sotto il profilo agronomico che ambientale». La perdita di sostanza organica è legata alla diffusione di tecniche tipiche dell’agroindustria che hanno portato al sopravvento della fertilizzazione chimica, facendo aumentare le rese agricole ma depauperando però i suoli.

 

L’uso di tecniche dannose per i suoli non ha causato danni solo sul fronte del tasso di carbonio organico, come spiega Giuseppe Corti, direttore agricoltura e ambiente del CREA, «La meccanizzazione delle operazioni colturali e l’uso di pratiche agronomiche poco sostenibili, come concimazioni azotate e lavorazioni troppo profonde, unite al mancato presidio del territorio da parte dell’uomo, hanno fatto perdere 135 delle 677 gigatonnellate di carbonio stoccato nei terreni mondiali. Tutto questo, ha accentuato il fenomeno dell’erosione. In Italia, le perdite annuali di suolo sono superiori a 10 tonnellate per ettaro all’anno. Ma in alcuni territori, superano anche le 100 T/ha. Ciò equivale all’asportazione di uno spessore di suolo compreso tra 1 e 10 millimetri all’anno».

 

Perdita di carbonio organico e erosione sono tra i fenomeni più rilevanti di degrado, che al suo massimo livello diventa esertificazione, con la perdita totale dei servizi ecosistemici. L’Italia è  tra i Paesi a rischio di desertificazione e Francesca Assennato, responsabile dell’Area monitoraggio e analisi integrata dell’uso del suolo, trasformazioni territoriali e processi di desertificazione dell’ISPRA, conferma che «Le regioni più a rischio sono in questo caso quelle in cui l’elevato uso non sostenibile del suolo si associa a una scarsità di risorsa idrica. Pensiamo in primo luogo alle nostre regioni meridionali. Ma la diversa distribuzione nel corso dell’anno di quantità disponibile causata dai cambiamenti climatici mette tutto il nostro territorio in pericolo».

 

Per Anna Luise, corrispondente tecnico-scientifico della United Nations Convention to Combat Desertification, «Intervenire è non solo utile dal punto di vista ambientale e sociale ma anche un ottimo investimento economico. Per ogni euro investito sul ripristino dei suoli si ottiene un risparmio di mancati costi attorno ai 30 euro».

 

La strada da fare è ancora lunga. I dati sull’impermeabilizzazione e coperture artificiali sono particolarmente allarmanti, come ha ricordato durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto Michele Munafò, responsabile del Servizio per il Sistema Informativo Nazionale Ambientale dell’ISPRA,  «La copertura artificiale del suolo – ha ricordato durante la conferenza  è arrivata al 7,14% del territorio nazionale. La media Ue è del 4,2%. Ma in Lombardia, Veneto e Campania, tre delle aree più fertili del Paese, si supera già il 10% di impermeabilizzazione. Nelle provincie di Monza, Napoli e Milano il dato è ben oltre il 30%. Per di più, i suoli urbani sono quelli nei quali il consumo di suolo si è più intensificato negli ultimi anni. Sono così scomparse preziose aree permeabili, aggravando i danni da allagamenti e ondate di calore».

 

L’Italia conta attualmente 42 siti di interesse nazionale, che occupano 170mila ettari a terra e 78mila a mare e per bonificarli, il Ministero dell’Ambiente ha finora stanziato 2,25 miliardi di euro. Laura D’Aprile, capo del Dipartimento transizione ecologica e investimenti verdi del ministero dell’ambiente ha reso noto che «Dal 2014 ad oggi sono state restituite e quindi resi riutilizzabili circa 7565 ettari di suolo favorendo quindi la concreta applicazione dei principi di sostenibilità e di circolarità. Il trend è sempre crescente grazie anche al nuovo approccio utilizzato in primis dall’amministrazione centrale e di conseguenza da tutti gli operatori di settore, pubblici e privati, che si sono adoperati a raggiungere gli obiettivi prefissati, consapevoli delle opportunità che la bonifica di aree contaminate può offrire. Nel campo della bonifica dei siti contaminati risultati significativi possono essere conseguiti unicamente coinvolgendo tutti gli attori del settore: amministrazioni centrali e territoriali, enti di ricerca e università, aziende, associazioni e cittadini».

 

Un approccio partecipato e percorsi condivisi che, oltre al problema del recupero delle aree contaminate, possono essere molto efficaci per curare anche molti altri mali del suolo. A ribadirlo sono stati i rappresentanti delle 3 società del suolo intervenute alla conferenza e che, all’interno del Rapporto, hanno indicato una serie di proposte concrete. A partire dall’esigenza della possibilità di poter contare su un minimo data set di indicatori da riunire in un indice di qualità del suolo. Giovanni Gigliotti, presidente della Società Italiana di Chimica Agraria,  ha ricordato che «Un indice può essere usato per predire gli effetti dei sistemi agrari, delle pratiche agronomiche sulla qualità del suolo, o può evidenziare i primi segni della sua degradazione».  Mission Soil UE ha proposto di usare 6 indicatori fondamentali: a ciascuno andranno associate delle soglie per verificare l’effetto delle diverse pratiche di gestione del suolo, in modo da poter distinguere quelle effettivamente sostenibili.

 

Secondo la Società Italiana Scienze del Suolo, «Un’agricoltura “amica del suolo” deve essere capace di adattare i sistemi agricoli alle condizioni esistenti, programmando operazioni che nel tempo riescano a riabilitare i suoli. In molti casi, il recupero o la rivisitazione delle sistemazioni idraulico-agrarie può essere la chiave di volta per permettere la reintroduzione di sostanza organica nel suolo. Molte azioni possono essere messe in atto ma devono essere intraprese di comune accordo tra amministratori, esperti, aziende agricole e cittadini».

 

La Società italiana di Pedologia denuncia che tutto è reso più difficile dalle lacune legislative: «La legislazione italiana sul suolo è carente. Nessuna proposta è andata oltre l’approvazione di un solo ramo del Parlamento. Auspicabili provvedimenti legislativi devono però basarsi su indicatori e modelli scelti e validati per fornire informazioni e schemi interpretativi della salute del suolo. In questo senso la SIPe (nel 2013 e nel 2022) si è fatta promotrice – con la collaborazione di tutte le società scientifiche agrarie (AISSA) – di una proposta di legge quadro sul suolo (il ddl 2614 nella XVIII legislatura).  Ma altrettanto importante è aumentare la consapevolezza diffusa tra l’opinione pubblica sull’importanza del sistema suolo per il futuro dell’umanità: la formazione scolastica ed universitaria  assume un ruolo fondamentale per smuovere l’attuale apatia nei confronti dei problemi del suolo; infatti una buona parte di studenti che si iscrive all’università non conosce l’esistenza di queste discipline».